Robyn Hitchcock Acoustic Duo
15/04/11 - Teatro Civico, Dalmine (BG)


Articolo a cura di Fabio Rigamonti
Serata conclusiva per l’edizione 2011 del Folk Meetings, organizzazione nata da Geo Music e patrocinata dall’assessorato della cultura di Dalmine, in un’edizione che è stata elaborata in nome dell’eterogeneità più marcata, ma sempre all’insegna della qualità: ad una partenza affidata al fisarmonicista brasiliano Renato Borghetti, difatti, sono seguite una seconda serata dedicata al cantautorato rock di stampo USA di Elliot Murphy, per concludere quindi il tutto lo scorso 15 aprile con la psichedelica giocosa e pop dell’inglese Robyn Hitchcock.
Tre nomi assolutamente prestigiosi per l’ambito musicale di competenza, tre nomi storici che, tuttavia, hanno fruttato alla manifestazioni risultati alterni per quanto riguarda la partecipazione di pubblico: sufficientemente presente alla serata di Borghetti, straripante in quella di Elliot Murphy (a detta degli organizzatori, una scelta di qualità ma assai poco coraggiosa – in altre parole: un successo ampiamente preannunciato), assai deficitante nella serata dedicata ad Hitchcock che vi sto per raccontare.
Non deve, quindi, stupire il discorso piccato ed amareggiato del comitato organizzativo ad inizio serata, soprattutto in un periodo come questo dove, in Italia, la cultura è minacciata su più fronti. Vedere una 70ina di partecipanti ad un concerto di una figura importante come Robyn Hitchcock (oltre 40 anni di carriera, collaborazioni con Peter Buck, Scott McCaughey e Bill Rieflin) avrebbe sconfortato davvero chiunque, tanto più che, sempre a detta dell’organizzazione, la serata sarebbe stata musicalmente davvero preziosa, e che ce ne saremmo accorti tutti della straordinarietà di questo artista; l’organizzazione aveva decisamente ragione, ma non consentitemi di mettere il carro davanti ai buoi, procediamo con ordine.

A scaldare la, ahimè, ridotta platea del Teatro Civico di  Dalmine ci pensano gli orobici Rusties, qui proposti in versione totalmente acustica con due chitarre ed un violino in formazione. I Nostri, che hanno collaborato con artisti del calibro di Cristina Donà, propongo un rock folk che sa tanto di America post-Vietnam, con la voce delicata di Marco Grompi ed il violino dell’ospite Jada Salem a sottolineare con delicatezza gli intrecci delle due chitarre classiche di Marco ed Osvaldo Ardenghi.
La band, emozionata nell’aprire un concerto per quello che è uno dei loro riferimenti musicali di sempre, impernia la setlist sull’ultimo parto discografico “Wild Dogs” pubblicato lo scorso febbraio, ed i circa 45 minuti a loro dedicati scorrono piacevolmente come se si fosse davanti ad un falò di una manifestazione pacifista a Washington nel 1970, un antipasto musicale a dir poco perfetto e che introduce con estrema naturalezza verso la portata principale della serata.

Rapido cambio di palco, ed ecco arrivare Robyn Hitchcock, dapprima da solo in compagnia della sua fida chitarra acustica, ma presto raggiunto dalla compagna di tour Jenny Adejayan, una violoncellista di colore che, con la sua sola presenza sul palco, rende immediatamente più folkloristica la partenza giocosa e psichedelica di Robyn.
Hitchcock, difatti, partito nel pieno della punk/new wave inglese dei ‘70s, si è adagiato nell’ultimo ventennio su un cantautorato che conserva ancora, al suo interno, una certa matrice pop di stampo prettamente UK, ma fortemente influenzato da una vena acustica dei grandi narratori del cantautorato made in USA.
Impossibile non rimanere colpiti di fronte alla maestria dell’esecuzione di Robyn, un chitarrista di tutto rispetto, meritevole di essere accostato ai grandi nomi della scena rock per fantasia e virtuosismo nell’esecuzione, esecuzione resa ancora più preziosa dall’armonica e dal violoncello, uno strumento utilizzato da Jenny con la stessa, identica, versatilità con cui Robyn “strimpella” la sua sei corde (addirittura, in un frangente il violoncello pareva un perfetto sostituto di una tastiera).
Senza mai prevalere su Robyn, Jenny ne sottolineava i passaggi più melodici delle varie ballate, e la voce squillante del cantautore inglese riusciva a splendere e brillare di sfumature ancora più colorate.
Da sottolineare anche l’incredibile capacità di Hitchcock di intrattenere il pubblico: il Nostro, difatti, ha introdotto ciascun brano in un italiano piuttosto maccheronico ma irresistibile, chiedendo al pubblico le traduzioni delle parole che non conosceva, rimanendo sorpreso dalle assonanze di diversi vocaboli italiani, dai plurali e dai singolari, e producendo dei non-sense linguistici degni del sonetto più surrealista di Lewis Carrol, stralci irresistibilmente comici ed insensati solo all’apparenza, visto che Robyn si riferiva sempre a qualche parte della canzone che stava per eseguire: fosse essa il titolo, il testo o la chiave con cui è stata composta.

Al termine dell’oltre ora e mezzo di concerto, con un pubblico visibilmente entusiasta di quanto ha avuto modo di vedere e, soprattutto, ascoltare, sono molte le considerazioni che mi balzano per la testa.
Innanzitutto, il viaggio sonoro: minimale (nessun effetto speciale, nessuna scenografia, nessuna luce particolare, nulla che potesse distrarre dall’esecuzione dei musicisti) eppure carico di emozioni. Quindi sì, per dare credito a quanto promesso ad inizio serata dagli organizzatori: chi fu presente in quel di Dalmine venerdì scorso è stato assai fortunato.
Poi, ci sarebbero però altre considerazioni da fare rispetto a quanto proposto, soprattutto una possibile giustificazione della scarsa adesione di pubblico della serata conclusiva della manifestazione, ma non è questa, forse, la sede più opportuna su cui innescare il dibattito.
Quello che il sottoscritto si augura è, dunque, di poter dire: “Arrivederci Folk Meetings, all’anno prossimo!”



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