Il frontman Adam Grahn tiene banco con la sua presenza scenica imponente e quel pizzo di barba che lo rende una specie di James Hetfield con vent'anni meno. Smorfie, linguacce, autoironia a go-go, ma anche una scaletta studiata nei dettagli ed eseguita con affiatamento da applausi. Nelle prime file solo ragazze, vittime di continui ammiccamenti da parte del prode cantante. Il locale, che non è enorme, è comunque al completo. Nonostante questa sia la prima volta in Italia, notiamo come quasi tutti i presenti sappiano molto bene le canzoni a memoria. Non era poi così scontato, dato che l'entrata gratuita avrebbe potuto attirare anche semplici curiosi.
Difficile tirar fuori pezzi eseguiti meglio di altri; la stessa band ammette con ironia di non saper neanche con che ordine piazzarli in scaletta: "sono tutti uno più sorprendente dell'altro". Soprattutto è difficile scindere la musica dallo show istrionico dei quattro svedesi: entrambi gli aspetti sono perfettamente fusi l'uno nell'altro. Tecnicamente, poi, la performance non può che dirsi senza la minima sbavatura: il batterista suona come uno cresciuto a suon di punk rock, il chitarrista solista è sempre puntuale come un orologio e sfodera a metà concerto anche un intermezzo alla Hendrix in solitaria. E che dire del cantante, se non che è stata giusto per una questione di centimetri che non mi è arrivata una sua pedata in faccia, dalla foga del momento. Durante l'esecuzione di "Underwear", ci pare giusto, vola sul palco un top intimo; Adam ringrazia, lo pone con devozione sul microfono, e riparte a cantare. Sebbene invochino più volte le signorine a spogliarsi, su questo, purtroppo, è andata male un po' a tutti: poiché non solo le signorine restano vestite, ma si spogliano batterista e cantante. Fra le maglie della loro scaletta, in compenso, trovano accoglienza una manciata di cover che esaltano un po' tutti, dapprima "Sweet Home Alabama", un richiamo ad "Iron Man", un' esplosiva "Ace Of Spades", una canzonatura parodica degli Iron Maiden e, dulcis in fundo, "Bad Romance" di Lady Gaga.
All'inneggiare generale "We want more", i Royal Republic rispondono con l'opener del loro disco: "The Royal" è lo spumeggiante atto finale, concluso d'un fiato e impreziosito da un prolungato inchino simultaneo in pieno stile The Beatles. Calato il sipario, persiste la sensazione di essersi veramente divertiti, e se quello era l'obiettivo la missione può dirsi ben compiuta. Non sappiamo se questa frizzante mina svedese abbia innanzi a sé un imminente salto di popolarità, o se invece resterà una gradevole live band un po' di nicchia; per il momento, conservo gelosamente la bacchetta spezzata donatami dal batterista. Chissà che un domani possa valer qualcosa.