Riuscire a definire un album dei Vintersorg è un’impresa titanica degna dei più potenti dei nordici. Vintersorg (alias Andreas Hedlund), col passare degli anni e degli album, è ormai diventato sinonimo di qualità e ricercatezza musicale. Attivi dal 1994 e con sulle spalle qualcosa come sette album, giungono lemmi lemmi all’ottava fatica, il qui presente “Orkan” che tanto prende spunto dall’ormai fatto proprio avantgarde metal e poco lascia al primitivo amore che risponde al nome di folk.
“Orkan” è un album deciso, intrigante e, per certi versi, complicato. Ritmiche incessanti e pesanti di chitarra si oppongono a passaggi di pianoforte e coretti aurei, salvo poi tornare prepotentemente al black metal più puro. Le radici ormai affondano in profondità nell’avantgarde e quindi, di conseguenza, l’album viene modellato attorno alle sue peculiarità e caratteristiche. Il cantato graffiante e selvaggio accompagna le melodie delle otto tracce che compongono il disco e irrobustiscono il sound che l’album ha in serbo per noi ascoltatori. Un viaggio ipnotico e denso, narrato in lingua madre (lo svedese), che purtroppo subisce una brusca frenata verso la conclusione, rendendo il tutto più nebbioso e occluso, rischiando quasi di far cadere le colonne su cui poggia “Orkan”.
Distante abbastanza dai capolavori della band, il disco riesce tuttavia a difendersi bene, mostrandosi brioso e studiato, facendo leva su brani lunghi e complessi che però, come un coltello a doppia lama, rischiano di farsi da soli del male. Un disco che non è per tutti (ma del resto, quale album dei Vintersorg può definirsi tale?) e che va ascoltato più volte per poterne apprendere l’elevato valore implicito.
“Orkan” è un album deciso, intrigante e, per certi versi, complicato. Ritmiche incessanti e pesanti di chitarra si oppongono a passaggi di pianoforte e coretti aurei, salvo poi tornare prepotentemente al black metal più puro. Le radici ormai affondano in profondità nell’avantgarde e quindi, di conseguenza, l’album viene modellato attorno alle sue peculiarità e caratteristiche. Il cantato graffiante e selvaggio accompagna le melodie delle otto tracce che compongono il disco e irrobustiscono il sound che l’album ha in serbo per noi ascoltatori. Un viaggio ipnotico e denso, narrato in lingua madre (lo svedese), che purtroppo subisce una brusca frenata verso la conclusione, rendendo il tutto più nebbioso e occluso, rischiando quasi di far cadere le colonne su cui poggia “Orkan”.
Distante abbastanza dai capolavori della band, il disco riesce tuttavia a difendersi bene, mostrandosi brioso e studiato, facendo leva su brani lunghi e complessi che però, come un coltello a doppia lama, rischiano di farsi da soli del male. Un disco che non è per tutti (ma del resto, quale album dei Vintersorg può definirsi tale?) e che va ascoltato più volte per poterne apprendere l’elevato valore implicito.