“Dov’è dov’è il capostazione? / Sto viaggiando senza biglietto e non ho direzione”
Questi versi, diventati famosi grazie al singolo dal successo spropositato “Il Mio Corpo Che Cambia”, sono interpretabili anche e soprattutto come lo smarrimento musicale e la mancanza d’ispirazione che imperversavano all’interno del duo Pelù – Renzulli. Ex duo, pardon. Già, perché in quel periodo a cavallo tra il 1998 ed il 1999 Piero e Ghigo persero le redini del controllo e dell’intesa, arrivando ad essere veri e propri separati in casa, con il cantante libero di comporre testi ricchi di frecciatine (“Mascherina” ha riferimenti evidenti al rapporto conflittuale tra Pelù e Renzulli, “Canto Di Gioia” insinua il volere del cantante di percorrere una futura strada solista: “Sì ho deciso così, questa strada è la mia / e vado dove andrò, disegnandomi una scia /[...] e sono pronto a tutto”) o semplicemente scevri del benché minimo appeal e revisione, ed il chitarrista che svogliatamente adempie al proprio compito. L’unico punto su cui gli ex amici erano d’accordo era il tentare una decisa strattonata verso il pop.
Con tali premesse è nato “Infinito”, l’ultimo capitolo della tetralogia degli elementi iniziata col fuoco di “El Diablo” e col quale ha ben poco da spartire. Se il disco del 1990 vedeva una semplificazione dei testi in favore di una maggiore immediatezza e schiettezza, il lavoro del 1999 è il crogiuolo della banalità e del kitsch. Fatta eccezione per episodi come “Nuovi Rampanti” e “Prendi In Mano I Tuoi Anni” (dedicata al ciclista Marco Pantani) e per la linea melodica dell’altra hit “Vivere Il Mio Tempo”, il sound che ha sempre caratterizzato i Litfiba anche nei periodi più trasformisti (“Mondi Sommersi”, pur con l’uso massiccio di elettronica e post produzione e di episodi non sempre riuscitissimi, manteneva ed evolveva le caratteristiche cardine della band fiorentina) latita, si annacqua ed affoga in un contesto che è ben inquadrato ma mal gestito ed interpretato. Da un lato una prestazione di Pelù melensa e senza mordente, in più tratti fastidiosa (“Incantesimo”, “Sexy Dream”), dall’altro un Renzulli che sviluppa controvoglia la maggior parte delle intuizioni pur dignitose: “Il Mio Corpo Che Cambia”, se spogliata di trombe ed amenità simili, si scopre un brano piacevole, “Prendi In Mano I Tuoi Anni” sarebbe convincente in tutto e per tutto se non avessero deciso di mettere la museruola agli amplificatori, “Frank” ha idee interessanti stroncate da un pesante mantello di ruffianaggine.
Non è corretto indicare il 1999 come un anno di svolta per i Litfiba. È forse più corretto parlare di vero e proprio offuscamento d’intenti. L’esperimento pop poteva esser concretizzato con un lavoro di tutt’altra caratura se gli umori all’interno del gruppo fossero stati propositivi anziché conflittuali, anziché esser più concentrati a stuzzicare l’altro. Nella musica ogni disco è l’esatta istantanea dello stato di salute della band in un dato momento: se c’è coesione e voglia di fare, un album rispecchierà questi intenti. Non è detto che ciò si concretizzi sempre in un capolavoro, anzi, ma se c’è una bontà di fondo, questa la si percepisce a prescindere. Al contrario, se i malumori personali sovrastano le idee musicali, è scontato il risultato più che negativo, ed “Infinito” è la perfetta, limpida fotografia del torbido e fosco status che le due colonne portanti dei Litfiba stavano reciprocamente vivendo.
Grazie ad un Piero Pelù consacrato come personaggio mediatico ed icona che fa presa sul pubblico femminile, “Infinito” è l’album più venduto della storia dei Litfiba, e proprio per questo l’emblema di come non sempre qualità effettiva e numero di vendite elevato vadano a braccetto. A far naufragare anche il più piccolo barlume di qualità del disco non è stata la svolta pop di per sé, quanto l’atmosfera tutt’altro che celestiale di quel periodo. Per dieci anni verrà considerato come l’epitaffio dei Litfiba targati Piero e Ghigo. Forse, il peggior epitaffio che potessero mai lasciare ai propri fan.