Halestorm
The Strange Case Of...

2012, Roadrunner Records
Rock

Recensione di Mia Frabetti - Pubblicata in data: 10/11/12

We gonna give ‘em somethin’ to remember, yeah
So write your name in gasoline, and set that shit on fire!


Violenti calci sui denti e appassionati baci sulle labbra: questo è, in sintesi, “The Strange Case Of…”, successore del fortunato album di debutto degli Halestorm che non sconfesserà chi tre anni fa aveva indicato questi quattro ragazzi della Pennsylvania come una band da tenere d’occhio. L’ultima volta che avevamo sentito parlare di loro era stato a cavallo fra 2011 e il 2012, in occasione dell’uscita di “Reanimate”, un coraggioso EP di cover che si destreggiava fra gli Skid Row e Lady Gaga, i Guns n’ Roses e gli Heart; diversivo senza dubbio gustoso e godibile, ma pur sempre un diversivo. Poi era venuto il turno di “Hello, It’s Mz Hyde”, apripista di “The Strange Case Of…”, di cui l’EP conteneva infatti quattro anticipazioni - “Love Bites (So Do I)”, “Rock Show”, “Daughters Of Darkness” e “Here’s To Us” -, nel caratteristico mix di aggressività e orecchiabilità che è diventato il marchio di fabbrica degli Halestorm. E, all’incirca a questo punto della storia, la fame aveva iniziato a farsi sentire sul serio. Per fortuna, solo un paio di mesi hanno separato “Hello, It’s Mz Hyde” dalla pubblicazione di “The Strange Case Of…”, e quando l’album è finalmente arrivato sugli scaffali dei negozi di dischi non c’è stato alcun dubbio: l’attesa è stata ampiamente ricompensata. La nuova fatica degli Halestorm, da ascoltare con un bicchiere di birra in mano o da ballare a piedi nudi al centro della stanza, costituisce un deciso passo in avanti della loro carriera.

Infatti, sin dalla opening track “Love Bites (So do I)” quello che balza subito agli occhi è che il sound degli Halestorm si è decisamente rafforzato, arricchito e consolidato, confermando (nel caso qualcuno avesse ancora dubbi a riguardo) che il quartetto ha tutti i numeri per sfondare. Chitarre ruggenti che si impennano al traino della voce di Lzzy Hale, fascinosa e grintosa frontwoman, un batterista totalmente fuori controllo, un ritmo che fila via con la sicura velocità di un treno in corsa: “Love Bites (So Do I)” è l’opening track perfetta per scaldare i motori prima di partire con una sgommata fumante. Neppure il tempo di riprendere fiato dopo questa bruschissima accelerata e veniamo immediatamente catapultati nella casa degli specchi di “Mz. Hyde”, dove Lzzy gioca a nascondersi e mostrarsi fra cupi brontolii di chitarre, tastiere soffuse e secchi rintocchi di batteria; come una gatta, la cantante prima fa le fusa, intonando strofe pulite e delicate, e poi spreme ogni goccia di rock attitude dal corpo per ringhiare nel microfono i suoi incubi peggiori. L’escalation continua con “I Miss The Misery”, punta di diamante dell’album e momento di massimo splendore delle doti vocali di Lzzy, che qui fa letteralmente sfracelli delle orecchie dell’ascoltatore, e “Freak Like Me”, classico anthem incitatore di folle che invita a gridare il suo ritornello con tutto il fiato che si ha nei polmoni, fregandosene delle corde vocali incandescenti per lo sforzo.

A raffreddare un po’ i bollenti spiriti e a scalare qualche marcia dell’autobus dei freak su cui ci siamo accomodati sopraggiungono a questo punto tre ballate – le prime due più zuccherose, la terza più essenziale – in cui Lzzy Hale si spoglia all’improvviso della sua corazza e si lascia ammirare nuda con fiero orgoglio e aria di sfida. È il momento di fare silenzio: persino gli strumenti si zittiscono poco alla volta e riducono la loro presenza nelle canzoni fino a scomparire. Abbiamo dato l’assalto alle mura di quella fortezza che è “The Strange Case Of…”; siamo penetrati al suo interno; adesso abbiamo raggiunto le stanze della regina degli Halestorm che, spogliata di quella chitarra che è un po’ uno strumento di autodifesa, canta la sua vulnerabilità con il solo accompagnamento del pianoforte. Ci sarà inevitabilmente qualcuno che in questa manciata di pezzi lenti crederà di scorgere un’abile opera di indoramento della pillola, una concessione ai dettami di un mercato discografico in crisi che obbliga all’inserimento di melodie easy listening per conquistare un pubblico il più trasversale possibile. Tuttavia quel qualcuno sarà solo caduto nella trappola dei giudizi affrettati: chiunque abbia visto Lzzy Hale in azione sa che lei è davvero così, una carezza e uno schiaffo, un sorso di miele e uno di veleno. E infatti, dopo i baci Lzzy e i suoi tornano ad distribuire pugni in pieno viso: l’atmosfera si scalda di nuovo con “Rock Show”, “Daughters Of Darkness” e “You Call Me A Bitch Like It’s A Bad Thing”, su cui gli Halestorm tornano ad affilare e sfoderare le unghie, seppure con minor grinta rispetto ai primi brani in tracklist. Difatti poi commettono l’unico passo falso di questo album: “American Boys”, canzone dalle tonalità southern, non convince fino in fondo e soffre il confronto con quelle che l’hanno preceduta, aprendo una crepa nella facciata curata dell’album. Non c’è dubbio che questo pezzo avrebbe fatto meglio a cedere il suo posto a una delle bonus track della deluxe edition, ma tant’è: nessuno è perfetto, e i dischi non fanno eccezione.

Tuttavia a un album così piacevole si perdona senza fatica anche una piccola caduta di stile, soprattutto se poi torna ad alzare la testa con un brano come “Here’s To Us”. In alto i calici, siamo arrivati ai saluti e ai ringraziamenti finali, ma non temete: questi accordi agrodolci saranno sempre qui per voi quando avrete bisogno di loro o sentirete la mancanza di un amico.

Un brindisi per gli Halestorm e per la lunga carriera che speriamo li attenda. Un brindisi per il meraviglioso pubblico di stasera. Un brindisi per… Deve esserci per forza un motivo?

Cheers!
Here’s to us, here’s to love


Se gli abbracci facessero rumore, probabilmente suonerebbero proprio così.



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