Hinder
Welcome To The Freakshow

2012, Republic Records
Rock

Recensione di Mia Frabetti - Pubblicata in data: 11/12/12

It’s not a problem you can stop, it’s rock’n’roll!

Sembrano passati secoli da quando Axl Rose strillava queste parole nel microfono, e invece correva soltanto il 1991. A quell’epoca la grande bomba a orologeria del rock’n’roll era già stata disinnescata da un pezzo, ma il mito per cui un assolo di chitarra avrebbe potuto porre fine alle atrocità della guerra era come un sogno da cui nessuno voleva svegliarsi: morendo, gli anni ’60 potevano aver trascinato con sé l’innocenza, ma non la speranza. La ribellione in musica non era ancora stata spogliata di ogni significato, anche se doveva lottare per tenersi addosso i brandelli delle vesti ricche di un tempo, e il rock’n’roll era ancora in grado di tirare fuori dal suo cappello da prestigiatore qualche band in grado di stravolgere per sempre la storia della musica. Ma, per dirla con uno dei protagonisti del film “L’onda", “di questi tempi ci è rimasto qualcosa contro cui ribellarci? Anche volendo, non ne vale più la pena. Abbiamo solo una cosa in testa: sballarci, sballarci, sballarci! Quello che manca alla nostra generazione è qualcosa che crei coesione, un obiettivo comune”. Non è forse una diagnosi perfetta dell’attuale stato di salute del rock’n’roll? Troppe band sembrano aver dimenticato che nelle mani giuste una chitarra può rivelarsi più pericolosa di un fucile. E gli Hinder, con le loro canzoni sguaiate, sono sicuramente fra queste.

Il mondo non si aspettava molto da questo quintetto dell’Oklahoma giunto al quarto full-length dopo i successi commerciali di “Extreme Behavior”, “Take It To The Limit” e “All American Nightmare”; tutto quello che si chiedeva agli Hinder era di rimanere il perfetto guilty pleasure che erano sempre stati e di far divertire ancora fan e detrattori incidendo un album-clone dopo l’altro, niente più. Ma qualcosa deve essere andato storto durante le registrazioni di “Welcome To The Freakshow”, perché l’ultima release degli americani trasmette soltanto la sgradevole sensazione di una band in crisi d’identità. Che i nostri vogliano tenere un piede nel sordido vicolo dei Buckcherry e uno nel viale lastricato di dischi di platino dei Nickelback non è certo una novità per chi ne ha apprezzato sin dagli esordi i contraddittori accostamenti di sviolinate lamentose e chitarre ruggenti; ma stavolta gli Hinder hanno decisamente voluto strafare e - forse preda di manie di grandezza - hanno creduto di poterla passare liscia inserendo una quantità di ballate tale da rivaleggiare con certi dischi degli Aerosmith.

La ruggine e le scintille che Austin Winkler ha imparato a strappare alle proprie corde vocali al prezzo di troppe sigarette e troppi drink sono il vero - se non unico - punto di forza degli Hinder, un diamante grezzo che tanti successi ha fruttato e altrettanti potrebbe fruttarne. Eppure il suo potenziale viene sprecato per confezionare ballate stucchevoli e inconsistenti (“Talk To Me”, “I Don’t Wanna Believe”, “Should Have Know Better”) e scialbi numeri da repertorio di boy band (“Is It Just Me”) che vanificano la credibilità di aspiranti anthem come “Ladies Come First”, “See You In Hell” e “Freakshow”, vuote odi ai cliché del rock’n’roll già penalizzate a sufficienza dall’assenza di ritornelli ossessivi e contagiosi.

Nei loro quasi dieci anni di carriera i cinque dell’Oklahoma hanno ampiamente dimostrato di saper ricoprire in modo eccellente e con grande entusiasmo il gramo ruolo di capri espiatori del rock più disimpegnato, ma tanto masochismo è troppo persino per loro. Perché se è vero che, a cercare con attenzione, lo spettatore di questo show troverà qualche canzone spericolata e degna di interesse e anche una ballata all’altezza delle hit precedenti, ogni cosa sarà vanificata dall’imbarazzante smagliatura aperta dall’interludio elettronico di “Wanna Be Rich”, prova lampante di una povertà di idee che ha toccato il fondo. Qui non si tratta di disprezzare a prescindere un prodotto apertamente commerciale e d’evasione, che tra l’altro non ha mai avuto la pretesa di essere nulla di più, né di negare che gli Hinder abbiano dato prova di saper scrivere più di una canzone in grado di scavalcare la concorrenza nell’arrampicata alle classifiche. Il punto è che “Welcome To The Freakshow” non è affatto il disco della maturità cui “All American Nightmare” sembrava aprire la strada, e i suoi suoni fiacchi falliscono nel tentativo di mascherare una penuria di contenuti che, denudata dai ritornelli catchy del passato, viene infine alla luce con tutti i suoi limiti e contraddizioni. Le luci bugiarde di questo circo possono trarre in inganno, al massimo, gli appassionati e i fedelissimi della band, ma persino loro dopo un paio di tracce dovranno riconoscere di non essere spettatori di nessuno freakshow: tutt’al più delle lagne d’amore di Austin Winkler.

Un tempo sotto tendoni come questo si esibiva una bestia selvaggia e indomabile, i cui ruggiti erano in grado di far tremare di piacere e soggezione centinaia di migliaia di persone. Il suo nome era rock’n’roll. E, a vedere l’animale ammaestrato e la macchina da soldi cui band come gli Hinder l’hanno ridotto, il cuore si riempie di amarezza.



01. Save Me
02. Ladies Come First
03. Shoulda Known Better
04. Freakshow
05. Talk To Me
06. Get Me Away From You
07. Is It Just Me
08. I Don’t Wanna Believe
09. See You In Hell
10. Anyone But You
11. Wanna Be Rich

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