“The Serpent’s Curse” è il nome del secondo album degli inglesi Pythia (il debut album invece si intitola “Beneath The Veiled Embrace” ed è stato pubblicato nel 2009). La formazione, nata nel 2007 grazie a un’idea della frontwoman Emily Ovenden, vede la partecipazione di Ross White e Tim Neale alle chitarre, Mark Harrington al basso, Richard Holland alle tastiere e Marc Dyos alla batteria. Il nome Pythia, come molti di voi avranno già intuito, proviene dall'antica Grecia; sarcedotessa al soldo dell’Oracolo di Apollo in quel di Delphi, faceva da tramite con il Dio stesso. Ed è qui che Emily entra in gioco ed esplorando in lungo e in largo le mille sfaccettature della vita e dell’amore, della passione e del soprannaturale crea la band che oggi possiamo ascoltare.
La radici dei Pythia affondano saldamente nel fertile terreno del power Metal, female oriented, à la Nightwish (era Tarja) ed Epica. Le parti in comune tra le band sono moltissime: la liricità della voce di Emily ricorda molto da vicino quello di Tarja, l’arrangiamento e il songwriting dei brani volgono lo sguardo ai lavori di Mark Jensen & co. Tutto questo poteva portare la band inglese a qualcosa di musicalmente interessante e stimolante? La risposta teorica vorrebbe essere un sì deciso, quella pratica è sostanzialmente un ni, grande come l’oracolo di Delphi.
Seppur coscienti delle proprie forze e dei propri mezzi (musicalmente e tecnicamente sono ineccepibili), i Pythia hanno prodotto un album dalle poche sfumature e luci. Le tonalità cromatiche di grigio presenti tra un candido bianco e un penetrante nero sfruttate dagli inglesi sono poche e ripetute. Dopo l’ottimo brano di apertura “Cry Of Our Nation”, vera e propria cavalcata del genere e futuro punto cardine della band, sono davvero pochi i brani a risaltare e salvarsi dall’oblio; tra questi possiamo citare “Kissing The Knife” e il singolo scelto dalla band “Betray My Heart” (non a caso questi sono le prime tre canzoni del disco). Parti di tastiera che ben si accompagnano alle chitarre power-oriented della band tengono a galla la macchina musicale dei Pythia, meccanismo che però soffre di una evidente mancanza di originalità e di ispirazione. Non basta quindi attingere a piene mani da questo o quell’altro genere, da tale band o l’altra per riuscire a produrre un qualcosa di proprio che abbia un marchio indelebile e facilmente riconoscibile anche agli ascoltatori di passaggio. La voce di Emily poi si perde nella nebbia e nell’ombra delle altri grandi del settore, purtroppo l’effetto novità non c’è sin dagli albori dei Nightwish e capisco che possa essere difficile distinguersi e farsi spazio sfruttando questa particolarità.
I Pythia quindi non convincono, producono un album sufficiente ma evidentemente claudicante. Per amanti del genere e per coloro che hanno ancora voglia di provare ad ascoltare qualcosa che andava di moda dieci anni fa.
I Pythia quindi non convincono, producono un album sufficiente ma evidentemente claudicante. Per amanti del genere e per coloro che hanno ancora voglia di provare ad ascoltare qualcosa che andava di moda dieci anni fa.