L’eterna sfida fra i Marillion e il music business non costituisce più un mistero per nessuno, ormai. Scorrendo le pagine di una carriera lunga trent’anni emerge persino qualcosa di struggente, nel modo in cui la band ha cercato di risalire la corrente facendo letteralmente a cazzotti con il mondo dell’industria musicale. Alla fine degli anni ’90 i fasti di “Kayleigh” erano un lontano ricordo e i cinque inglesi sembravano regrediti a uno status di semianonimato nonostante un percorso artistico di tutto rispetto. Era come se tutto a un tratto il mondo non fosse più disposto ad ascoltarli, fra un'epoca che si chiudeva e il 2.0 alle porte. Vennero scaricati in quattro e quattr'otto dalla EMI nel giro di pochi dischi, poi relegati nel girone delle bands fuori moda, infine bollati dalla stampa come dinosauri, ultimi residuati bellici di un genere polveroso e monolitico da cui peraltro loro stessi da tempo cercavano di prendere gradualmente le distanze. Appellativi utilizzati con la stessa disinvoltura nei confronti dei pochi sostenitori rimasti, colpevoli di sostenere una causa del tutto antagonista alle logiche di marketing e alle preferenze di certa critica. Chi conosce il mercato discografico sa invece che quella dei Marillion e dei loro followers costituisce un’esperienza sui generis rispetto alle regole non scritte del music business; da una carriera ridotta ai minimi termini la band ha colto la più classica delle opportunità per stabilire un rapporto pressoché diretto con il suo pubblico. In questa sorta di simbiosi l’attività live, culminante nei noti Marillion Weekend, rappresenta un punto focale al pari della discografia parallela a testimonianza delle numerose esperienze on stage.
Analizzare la nutrita discografia live dei Marillion è un’operazione che richiederebbe una puntata dei nostri speciali, oltre che una conoscenza specifica dell’argomento; ci limitiamo a dire, per chi si fosse perso le puntate precedenti, che "Best.Live" potrebbe costituire un buon punto di partenza. Non abbiamo fra le mani il live definitivo, gli aficionados sanno bene che questo disco avrebbe potuto assumere mille forme diverse per scaletta e contenuti. Eppure i Marillion riescono in quella che per chiunque rappresenterebbe un’autentica impresa, quella di concentrare trent’anni di carriera in venti tracce eseguite live dal 2003 e il 2011. Operazione di certo non esente da scelte discutibili, come quella di avvantaggiare nella scelta delle canzoni “Happiness Is The Road”, senz’altro un buon disco ma meno rappresentativo di un “Brave” qui limitato alla sola “Hard As Love”. Che dire poi della scelta di ignorare totalmente “Seasons End” ed altri lavori senz’altro meritevoli di menzione? Se trovare una chiave di lettura a questo live può essere impresa ardua, va detto che le scelte di cui sopra risultano comunque addolcite da vari fattori, vedi la presenza di una vera chicca come “The Release”, b-side da “Seasons End” spesso riproposta in sede live, oppure il trittico da “Clutching At Straws” interpretato da Hogarth con grande personalità e senza timori reverenziali verso il suo predecessore. Fa piacere notare la piena consapevolezza di un pezzo come “Three Minute Boy”, spesso e volentieri inserito in chiusura di set, la cui semplicità non sfigura accanto a pilastri come “King”, “Beautiful”, ”Neverland”, “This Strange Engine”, capitoli di una saga in cui il rock progressivo, non ci stancheremo mai di sottolinearlo, costituisce soltanto il punto di partenza. Non siamo davanti a un best of quindi, e neppure alla fedele trasposizione di un intero concerto; ci sono venti canzoni interpretate in maniera perfetta, con una precisione e un’intensità emotiva forse irripetibili persino per gli stessi autori.
Non serve che andiate a ricercare chissà quali significati, il senso di questo disco è racchiuso in quelle due semplici parole di quattro lettere scritte, con un pizzico di spavalderia, a caratteri cubitali. Per l’appunto “Best.Live”.