Bob Dylan
Tempest

2012, Columbia Records
Folk

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 04/02/13

Si fa presto a dire Shakespeare. Sulla soglia dei settant’anni Bob Dylan non ha alcuna intenzione di chiudere il discorso iniziato ormai mezzo secolo fa; poco importa che il titolo della suo nuovo disco, “Tempest”, ricalchi quello della opera conclusiva del celebre poeta di Stratford. La quadratura del cerchio iniziata con “Time Out Of Mind” (1997) con cui Dylan trova il sound perfetto e che da allora non ha abbandonato più, non conosce battute d'arresto; il viaggio lungo cinquant’anni del menestrello di Duluth fa tappa ancora una volta presso la roots music, quel misto di folk, rock, bluegrass e qualunque filone abbia contribuito a forgiare il sound del Nuovo Continente. 
 
Già dalle prime note di “Duquesne Whistle” le intenzioni di Dylan si materializzano in questo shuffle dalle sonorità polverose e dalla melodia innocente; il campionario che segue è fatto dalle rassicuranti sonorità in stile Nashville di “Soon After Midnight”, il Muddy Waters di “Early Roman Kings”, l’appeal tipicamente rock di “Pay In Blood”: un campionario di citazioni musicali vasto e colto come si conviene ad una carriera che non ha conosciuto momenti di autocelebrazione. Il filo conduttore di “Tempest” ancora una volta è quello della morte, e non perché sia diventata un pensiero costante di Dylan; la morte, quella che finisce in tragedia di “Tin Angel” e della title-track ispirata al Titanic, è una presenza costante nella tradizione folk blues cui il singer si rifà. E’ parte integrante della nostra esistenza e prima ne sei consapevole, meglio la affronti. I punti nevralgici di “Tempest” descrivono scenari biblici misti a disperazione, come quello di “Scarlet Town”, in cui “le strade hanno nomi che non si possono pronunciare”. E’ il Dylan demoniaco che costruisce su un sound stratificato e ossessivo autentiche elegie, la descrizione di assolate lande americane, come il deserto della biblica “Narrow Way”, popolate dai soliti personaggi in cerca di redenzione.
 
Dylan continua a spiegarci l’America con gli occhi di un figlio e con il linguaggio solenne di un profeta biblico. Per dirla con le parole dell’autore, queste non sono canzoni che si possono far cantare a un pubblico urlante; sono canzoni che può cantare solo lui, con la sua voce sgraziata e l'enorme carico di storia che la sua musica si porta appresso. Tutto questo è Dylan, tutto questo è "Tempest". E scusate il ritardo.




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