Axel Rudi Pell
The Crest

2010, SPV
Hard & Heavy

Recensione di Gaetano Loffredo - Pubblicata in data: 28/04/10

Squadra che vince non si cambia. Dopo aver selezionato una dozzina di pezzi da una vastissima discografia per realizzarne il dignitoso “Best Of Anniversary Edition”, Axel Rudi Pell rilascia il quattordicesimo album solista, "The Crest", che delizierà una volta ancora il nutrito gruppo di sostenitori del Ritchie Blackmore teutonico. Il biondo lungocrinito non ha la minima intenzione di variare la sua proposta né di tradire il proprio credo pertanto, sulla scia dei lavori precedenti, piazza una serie di bordate hard n’ heavy che hanno, come ci tiene a precisare lo stesso leader, una prerogativa specifica: sono esenti dal doppio pedale. Notizia simpatica ma irrilevante ai fini di un giudizio complessivo dell’opera.


Quasi nulle le differenze rispetto all’ispirato “Tales Of The Crown” (2008). La produzione, curata in questa occasione dallo stesso Axel Rudi Pell, è finemente cesellata, la scelta dei suoni è la stessa da almeno una decina d’anni e la scaletta presenta in alternanza i soliti mid tempo, up tempo, una power ballad (“Glory Night”) e un adagio strumentale, “Noblesse Oblige”.
Dopo la tradizionale introduzione sinfonica, intitolata “Prelude Of Doom”, il gruppo parte schietto e deciso con “Too Late”, nella quale si erige il cantante Johhny Gioeli, autore di una prova magistrale dietro al microfono. E c’era da aspettarselo.
Pur restando la chitarra elettrica l’elemento focale, il drumming serrato e preciso di Mike Terrana (ex-Rage, Tarja, Masterplan) riesce ad inserire quella marcia in più necessaria ad un disco che vive, oltre che sulla melodia, sul ritmo. E a proposito di melodie, sono proprio loro il punto debole di “The Crest”, senz’altro apprezzabili ma che esauriscono la loro spinta evocativa dopo qualche prolungato ascolto. “Devil Zone” e  “Prisoner Of Love” ne risentono pesantemente.
L’affresco ottantiano, in bilico tra hard rock ed heavy metal, è servito: “Dreaming Dead” è un mid tempo sincopato, “Burning Rain” un’iniezione d’adrenalina che ci accompagnerà fino alla chiusura iper-melodica di “The End Of Our Time”. Tutto già detto e tutto già scritto, come da prassi.
 
Con molta franchezza, devo ammettere che The Crest mi ha lasciato un tantino interdetto. Axel Rudi Pell sembra non voler rischiare più nulla, si coccola la sua creatura e scava all’infinito nel pozzo della continuità, un luogo della sua mente dove ricerca sonora ed evoluzione stilistica sono pressoché assenti. Un album come questo, sistematico e derivativo nella forma, ha bisogno giocoforza di melodie allettanti e significative. Qui ce n’è qualcuna discreta, qualcun’altra sterile: occhio Axel che il rischio di passare inosservati è dietro l’angolo.





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