Sigur Ros
Takk...

2005, EMI
Post Rock

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 07/06/10

Un suono continuo, elettrico, un’aurora boreale sullo sfondo di una notte freddissima e limpida. Gli islandesi Sigur Rós ci invitano a dare ascolto alla loro quarta opera in studio e, per aver risposto alla loro chiamata, ci sussurrano un delicato “Takk…” (“Grazie...” in islandese).

La chitarra elettrica quindi si scalda, comincia un ritmo regolare e martellante che ricorda una marcia militare; dei carillon, la voce unica, efeba di Jónsi comincia il suo canto ultraterreno. Cullati dall’ambiente, neanche ci accorgiamo che il sole comincia a sorgere, passa oltre le montagne, si alza su un muro di chitarre elettriche in massima distorsione che affogano l’urlo di Jónsi: “Ed ecco, ti sento, eccoti, sole splendente”, ed è con i raggi del sole che si disciolgono i nostri confini, diveniamo tutt’uno con la musica: tremanti, ci accorgiamo di essere diventati tutti una cosa sola, trovando una magnifica consolazione e sollievo all’interno della canzone.

Ancora storditi per la bellezza di “Glòsòli”, riacquistiamo forma: un passaggio pare aprirsi nella pozzanghera ai nostri piedi, si squarcia sulle note di un pianoforte dolcissimo. Entusiasti, ci balziamo dentro, e ci ritroviamo bambini, a giocare indossando impermeabili in una giornata uggiosa. Le Amiina, complici da sempre dei Nostri, divertite dai nostri giochi, intessono una sinfonia di archi che sostiene il ritornello di “Hoppìpolla”, una musica talmente intensa da costringerci a fermarci per ascoltarla, e, senza alcun preavviso, il nostro naso improvvisamente sanguina.

Tempo di ritornare all’età adulta, perché il viaggio deve continuare, e niente di meglio che prendere la strada del ritorno sulla stessa melodia di “Hoppìpolla”, ma suonata al contrario, su “Með Blóðnasir”.

A sorpresa, ci ritroviamo a contemplare un paesaggio marino: nelle profondità degli oceani, la vita sta nascendo su scintillanti xilofoni. Jónsi non riesce a formulare le parole in modo adatto per poter esprimere il concetto in liriche e decide di abbandonarsi all’Hopelandic, una lingua di sua invenzione, simulando perfettamente il suono stridulo del richiamo delle balene. Tutte le cellule così nate in questo brodo primordiale si uniscono in una danza estatica, sulle note pompose di una banda da sagra di paese, salvo poi, esauste, andare a dormire su un culla di archi. Tutto questo negli 8 minuti e 41 secondi di “Sé Lest”.

Persi in questo oceano di meraviglie, non ci rendiamo nemmeno conto di essere diventati “Sæglópur”, ovvero marinari dispersi, e su un pianoforte pop raccogliamo il fiato per lanciare il nostro urlo di soccorso, urlo che arriva dirompente su un tappeto di chitarre elettriche. Pochi secondi, intensissimi, in cui dare sfogo a tutta l’aria che tratteniamo nei polmoni.

Sopraggiunge finalmente un subacqueo che, parlando un Hopelandic a noi comuni mortali purtroppo incomprensibile, ci intona una “Mílanó”. Il suo è un discorso in crescendo, nel ritornello pare assumere un’importanza capitale, e sebbene le sue parole ci siano ignote, percepiamo chiaramente l’emozione che questa persona ci vuole comunicare.

Sotto la saggia guida del subacqueo, torniamo sulla terraferma, dove le Amiina ci salutano con un intreccio drammatico di archi. Sopraggiungono i Nostri che attaccano con un pezzo fortemente post rock ed elettrico. L’hopelandic, finora usato in modo astratto, diviene fortemente concreto, e “Gong” prende così forma.

Giunge di nuovo la sera in terra d’Islanda, cominciamo ad essere stanchi per tutte le emozioni provate sinora in questo intenso viaggio. I Sigur Rós, quindi, ci invitano a sedere davanti ad un fuoco, e suonano per noi “Andvari “, una canzone crepuscolare, una ballad soffice e calda che invita al riposo ed alla contemplazione.

E’ notte fonda oramai, ci addormentiamo felici in questa landa così concreta eppure così misteriosa ed aliena, Jónsi e compagni vegliano sul nostro sonno suonando “Svo Hljótt”. Il sole, lo stesso splendido sole che ci ha fatto disciogliere all’inizio, è pronto a tornare nuovamente, come ogni giorno, ad elargire la sua dirompente potenza, quindi ecco che la musica torna elettrica, intensa, e noi inevitabilmente ci svegliamo, consapevoli di esserci in qualche modo arricchiti.

Con questa nuova consapevolezza nel cuore, siamo pronti a prendere congedo da questo fantastico viaggio emotivo e musicale. Per salutarci, i Sigur Rós ci propongono una minimale “Heysátan”, dove la band ci ricorda con garbo alcuni protagonisti di questa incredibile storia, e parlo dello xilofono, del pianoforte, degli ottoni, e della leggiadra voce del folletto Jónsi, emotiva ai massimi livelli.

Con questa quarta fatica discografica, i Sigur Rós confezionano un’opera di una trasversalità unica, un lavoro che si può tranquillamente definire storico e che conferisce alla band una visibilità internazionale di entità tale che, dal 2005 in avanti, consoliderà il meritato status di leggenda della musica alternativa del quartetto islandese. Arrivando ad essere sensazionalista, potrei scrivere che, se siete amanti della Musica con la “M” maiuscola, in qualche modo non potete non riconoscere il valore di quest’opera. Vi potrà non piacere, ed i gusti personali sono sempre leciti, ma non potete in alcun modo non definirla eccezionale – nel significato più lato del termine – perché, credetemi: una musica come quella dei Sigur Rós, altrove, non l’avete mai sentita. Questo è uno di quei dischi che, quando finisce, si rimane ad osservare intontiti il proprio lettore oramai fermo, dispiaciuti che la magia sia durata soltanto 65 minuti.


E se all’inizio sono i Sigur Rós che, con una strana forma di spavalda timidezza che da sempre li contraddistingue, a volerci quasi ringraziare per aver dato loro la possibilità di emozionarci, alla fine del cd siamo noi ascoltatori a ritrovarci con un enorme debito di gratitudine nei loro confronti. Quindi, come se in qualche modo queste parole possano bastare a ripagare di tutta quest’arte, è con sentita commozione che vi dico “Takk…”, ragazzi.

Takk, Sigur Rós. Takk…





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