Recensione a cura di Andrea Pizzini
La Musica, come tutte le forme d'arte che si rispettino non può esser oggettiva. O meglio, solo in rarissimi casi, ossia di fronte a dei dischi ineccepibili sotto qualsiasi punto di vista, possiamo utilizzare la tronfia arma dell'oggettività. Nella maggior parte dei casi ecco che la soggettività la fa da padrone, proprio perché le emozioni suscitate differiscono da soggetto a soggetto.
Questo piccolo ma doveroso preambolo è per giustificare il mio voto in fondo alla recensione, voto che cozza tremendamente con la media che ho riscontrato in rete e sulla carta stampata. Il metalcore dei Twelve Tribes mi ha esaltato parecchio ed è un grosso risultato perché il genere non è che abbia dimostrato molta fantasia e longevità in questi anni. Infatti, a differenza del vero fenomeno di rottura chiamato nu metal (genere fantasioso, esplosivo, divertente, in grado di ricrearsi in nuove e sempre più belle forme col passare del tempo), il metalcore ha mostrato velocemente tutti i suoi limiti, salvo sporadici casi, ovviamente.
Il quintetto dell'Ohio, con questo “Midwest Pandemic”, riesce nel sempre arduo compito di convincere ed affermarsi al taglio del terzo disco. Riesce in tutto questo grazie ad un platter praticamente perfetto: una produzione asciutta, un songwriting ispirato come non mai, arrangiamenti deliziosi ed una continua ricerca di soluzioni nuove e personali, una preparazione allo strumento ottima, ecco gli ingredienti per sfornare un appetitoso pasto in musica. Il lavoro si apre con la fulminea “National Amnesia” che mostra subito i denti aguzzi grazie ad un'ossatura thrash colma di fratture deathcore, che si sviluppano meglio nella seguente “Muzzle Order”, un'intricata matassa di riffs indiavolati che la coppia Corpus/Schindel non lesina ad elargire. “Televangelist” parte a testa bassa, ricalcando i cliché del genere ma riesce ad esaltare il fortunato recensore grazie a continui stop&go ed aperture melodiche mai eccessivamente ruffiane. Con “Pagan Self Portrait” una strizzatina d'occhio alla classifica i Twelve Tribes la danno, inutile nascondersi dietro ad una pagliuzza ed i chorus in clean vocals, ben fatti tra l'altro, sono li in bella mostra a darmi ragione.
Capaci di non sputtanarsi quando la loro musica costeggia lidi smaccatamente mainstream, i cinque americani ci prendono gusto e con “Hystory Versus The Pavement” enfatizzano quanto appena asserito con vocals ancora più melodiche, atmosfere rilassate e chitarre liquide quanto basta. Il vetriolo sparso qua e la in “Librium” sembra un richiamo all'ordine per la band, che riesce ugualmente a piazzare melodie sempre raffinate nel maelstrom chitarristico. La perfezione nel bilanciare le due anime della band si manifesta, in tutto il suo splendore, nei tre minuti scarsi di “Verona”, una canzone praticamente perfetta, un compendio di come si debba suonare metalcore senza snaturarsi, senza ripiegare su soluzioni “user friendly” e marchette varie. Con le ultime tre tracce, i Twelve Tribes compiono la scelta di accomiatarsi da chi ascolta, puntando forte sulla sperimentazione. Se “The Nine Year Tide” è un lussureggiante constrictor melodico, la titletrack tambureggia forte nella testa con riffs circolari, break acidi ed un drumming tentacolare mentre gli oltre otto minuti di “The Ricovery” ci mostrano come Jackson e soci siano in grado di creare monolitici puzzle strumentali uscendo indenni e convincenti nonostante un minutaggio importante.
In chiusura ribadisco il mio piacere nell'ascoltare questo dischetto, invitando chiunque non l'abbia mai fatto perché castrato da voti bassi. Twelve Tribes? Per me promossi a pieni voti.