Forti di una line-up rinnovata nella quasi totalità, gli svedesi Therion pubblicano, con “Sitra Ahra”, il loro quattordicesimo lavoro. Sempre guidati dal chitarrista e mastermind Christopher Johnsson, i Nostri pongono il tassello conclusivo in una quadrilogia composta, oltre che dalla presente release, da “Lemuria”, “Sirius B” e “Gothic Kabbalah”.
E’ molto difficile andare a sondare quali siano i temi trattati nel disco. Come spesso è accaduto anche in passato, i testi sono stati scritti da Thomas Karlsson, un’autorità svedese in fatto di misticismo, dottore universitario in Storia delle Idee e Storia delle Religioni dell’Univesrità di Stoccolma e fondatore dell’ordine Dragon Rouge. Quella che si può percepire è però una generale aura sacrale e mistica, un senso di ritualità esoterica che ci accompagna costantemente attraverso le undici tracce che compongono questo album. Eppure, nonostante la difficoltà tematica, “Sitra Ahra” non è un disco difficile da assimilare, tutt’altro. Seppur estremamente magniloquente e pomposo, si lascia ascoltare con estrema facilità, peccando forse talvolta in prolissità o incappando in brani non proprio azzeccati, ma lasciando una notevole soddisfazione una volta terminato.
Per fornire una qualche coordinata stilistica, siamo nel campo del symphonic metal: questa è senza dubbio l’influenza maggiore, ma ogni ascoltatore potrà ritrovare all’interno di questo lavoro anche momenti folk, gothic, death/black e doom. Il tutto ovviamente intrecciato in maniera magistrale e perfettamente cesellato in modo da fornire un’identità propria e ben definita ad ogni brano. Se non si è avvezzi a questo genere (o meglio, se non si conoscono i Therion) si può magari restare disorientati dall’incrocio di più voci (clean più o meno profondo, vocalizzi operistici, gorgheggi) e stili musicali, ma è tutto un attimo, una sensazione che passa velocemente.
In fondo ai Therion basta poco per rapire subito l’ascoltatore, anche con una sola traccia, come la titletrack posta in apertura. Il pezzo incede con un fare epico e magniloquente, esotico e maestoso, che si sposa in maniera magnifica con i cori femminili (sognanti ed eterei) e quelli maschili (opera in grandissima parte di Thomas Vikström). Non varia molto nella propria struttura (se si esclude un break centrale), ma riesce subito ad affondare nel cuore di ogni ascoltatore, al punto che mi sono ritrovato a canticchiare il ritornello più volte anche dopo diverso tempo. Quello appena descritto non è l’unico pezzo in grado di affascinare: il disco è pieno di ottimi momenti. Si prenda “Kings Of Edom”, caratterizzata anch’essa da un inizio in stile operistico venato però stavolta da inserti folk che emergono piano piano e vanno a prendere poi il sopravvento, creando un’atmosfera quasi più pastorale, alternata costantemente a riff ed accelerazioni ora più rock, ora più epiche, con continui cambi di tempo. Da citare poi la tenebrosa (e quasi doom) “Unguentum Sabbati”, “Land Of Canaan”, quasi un’esperienza in sé, capace di condensare in un unico pezzo atmosfere (musicali e non) anche teoricamente lontanissime tra loro, “2012” (dal riffing molto sabbathiano), la gotica “Kali Yoga III”, “Din”, forse la più ferale e violenta del lotto, e la conclusiva “After The Inquisition/Children Of The Stone”, che nei suoi momenti più folkloristici ha riportato alla mia mente anche gli Amorphis.
Per come l’ho vissuto io, “Sitra Ahra” non è da considerarsi come un “semplice” disco. Le undici tracce sono, ciascuna a modo suo, un viaggio attraverso un caleidoscopio di influenze di vario tipo (geografiche, musicali, letterarie, tematiche), un sentiero verso l’ignoto (questa può essere, approssimativamente, la traduzione del titolo dell’album) innegabilmente affascinante, un patchwork solo apparentemente barocco e magniloquente. Un album che, datogli l’attenzione che si merita, saprà stregarvi sin dai suoi più piccoli particolari, preziosi e brillanti come filamenti d’oro che vanno a costituire una tela incredibilmente affascinante.
E’ molto difficile andare a sondare quali siano i temi trattati nel disco. Come spesso è accaduto anche in passato, i testi sono stati scritti da Thomas Karlsson, un’autorità svedese in fatto di misticismo, dottore universitario in Storia delle Idee e Storia delle Religioni dell’Univesrità di Stoccolma e fondatore dell’ordine Dragon Rouge. Quella che si può percepire è però una generale aura sacrale e mistica, un senso di ritualità esoterica che ci accompagna costantemente attraverso le undici tracce che compongono questo album. Eppure, nonostante la difficoltà tematica, “Sitra Ahra” non è un disco difficile da assimilare, tutt’altro. Seppur estremamente magniloquente e pomposo, si lascia ascoltare con estrema facilità, peccando forse talvolta in prolissità o incappando in brani non proprio azzeccati, ma lasciando una notevole soddisfazione una volta terminato.
Per fornire una qualche coordinata stilistica, siamo nel campo del symphonic metal: questa è senza dubbio l’influenza maggiore, ma ogni ascoltatore potrà ritrovare all’interno di questo lavoro anche momenti folk, gothic, death/black e doom. Il tutto ovviamente intrecciato in maniera magistrale e perfettamente cesellato in modo da fornire un’identità propria e ben definita ad ogni brano. Se non si è avvezzi a questo genere (o meglio, se non si conoscono i Therion) si può magari restare disorientati dall’incrocio di più voci (clean più o meno profondo, vocalizzi operistici, gorgheggi) e stili musicali, ma è tutto un attimo, una sensazione che passa velocemente.
In fondo ai Therion basta poco per rapire subito l’ascoltatore, anche con una sola traccia, come la titletrack posta in apertura. Il pezzo incede con un fare epico e magniloquente, esotico e maestoso, che si sposa in maniera magnifica con i cori femminili (sognanti ed eterei) e quelli maschili (opera in grandissima parte di Thomas Vikström). Non varia molto nella propria struttura (se si esclude un break centrale), ma riesce subito ad affondare nel cuore di ogni ascoltatore, al punto che mi sono ritrovato a canticchiare il ritornello più volte anche dopo diverso tempo. Quello appena descritto non è l’unico pezzo in grado di affascinare: il disco è pieno di ottimi momenti. Si prenda “Kings Of Edom”, caratterizzata anch’essa da un inizio in stile operistico venato però stavolta da inserti folk che emergono piano piano e vanno a prendere poi il sopravvento, creando un’atmosfera quasi più pastorale, alternata costantemente a riff ed accelerazioni ora più rock, ora più epiche, con continui cambi di tempo. Da citare poi la tenebrosa (e quasi doom) “Unguentum Sabbati”, “Land Of Canaan”, quasi un’esperienza in sé, capace di condensare in un unico pezzo atmosfere (musicali e non) anche teoricamente lontanissime tra loro, “2012” (dal riffing molto sabbathiano), la gotica “Kali Yoga III”, “Din”, forse la più ferale e violenta del lotto, e la conclusiva “After The Inquisition/Children Of The Stone”, che nei suoi momenti più folkloristici ha riportato alla mia mente anche gli Amorphis.
Per come l’ho vissuto io, “Sitra Ahra” non è da considerarsi come un “semplice” disco. Le undici tracce sono, ciascuna a modo suo, un viaggio attraverso un caleidoscopio di influenze di vario tipo (geografiche, musicali, letterarie, tematiche), un sentiero verso l’ignoto (questa può essere, approssimativamente, la traduzione del titolo dell’album) innegabilmente affascinante, un patchwork solo apparentemente barocco e magniloquente. Un album che, datogli l’attenzione che si merita, saprà stregarvi sin dai suoi più piccoli particolari, preziosi e brillanti come filamenti d’oro che vanno a costituire una tela incredibilmente affascinante.