Stone Sour
Audio Secrecy

2010, Roadrunner Records
Rock

La definitiva consacrazione degli Stone Sour? Tante luci ma anche qualche ombra...
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 06/09/10

Visti per molto tempo come un side-project di Corey Taylor e James Root, rispettivamente cantante e chitarrista degli Slipknot, gli Stone Sour arrivano alla fatidica prova del terzo album in carriera. Benché la nascita degli Stone Sour sia antecedente all'esplosione mondiale dei nove mascherati di Des Moines, i nostri sono quasi rimasti “congelati” per tanto tempo, visti i crescenti impegni dei due leader in uno dei fenomeni musicali più travolgenti degli ultimi dieci anni.

Ma nonostante un inizio di carriera particolare, gli Stone Sour sono riusciti comunque a ben figurare sin dagli esordi, a partire dall'omonimo “Stone Sour” del 2002, fino al buonissimo “Come What(ever) May”, senza dubbio l'album che ha dato “tridimensionalità” alla band, scrollandole definitivamente di dosso l'etichetta di “progetto parallelo di Taylor e Root”, grazie a una manciata di brani molto convincenti, energici e radio friendly al punto giusto, insomma al passo coi tempi. “Audio Secrecy” ha dunque il compito di affermare ulteriormente la prestigiosa posizione della formazione, inserita metaforicamente a metà strada tra il pubblico “estremo” degli Slipknot e il rock mainstream avvicinabile (e apprezzabile) praticamente da chiunque.

Sembra proprio questo il focus di “Audio Secrecy”, spostare definitivamente il corso della band senza provocare bruschi scossoni col passato, un'operazione ampiamente preventivabile che giunge in un momento cruciale per il prosieguo di carriera. Ebbene la strada scelta è quella dell'ammorbidimento, nello smussare gli angoli rimasti del roccioso sound originario, per renderlo ancor più accessibile, senza per questo scendere di livello, non scontentando i fan di vecchia data e di provenienza Slipknot. Gli Stone Sour del 2010 si gettano a capofitto nel rock, un rock moderno, dal taglio molto “americano”, fatto e rifinito per girare nei circuiti radiofonici degli States (che noi in Italia ci possiamo solo sognare), che gioca su grandi ritornelli, melodie a profusione, motivi incalzanti e se vogliamo pure ruffiani. Una smaccata virata commerciale? Premettendo che i nostri non si sono mai rivolti a un pubblico underground, la risposta è certamente no.

Perché c'è modo e modo di addolcire la propria musica senza rinnegare il passato, senza risultare troppo servili al music biz, conservando comunque la propria identità. Per conto mio gli Stone Sour sono stati molto accorti nel presentare le proprie intenzioni, mantenendo la buona qualità a cui eravamo abituati e non risparmiando, all'occorrenza, passaggi energici e tirati. Alla fine di queste quattordici tracce rimane però l'amaro in bocca. È come se le ottime intenzioni della band non siano state sempre supportate da un'ispirazione importante, come accaduto in “Come What(ever) May”, confezionando sì un buon prodotto, ma non all'altezza del precedente. Un vero peccato perché con una scelta più ristretta di brani (tredici sono forse troppi per un album del genere, intro esclusa), eliminando qualche passaggio a vuoto, i nostri avrebbero fatto sicuramente migliore impressione. Come detto in precedenza, il nu-metal degli esordi ormai si è fatto da parte, sono le melodie a fare la voce grossa, posizionandosi diverse volte su registri malinconici e maggiormente ricercati, dando in pasto ai fan anche diverse ballate, nessuna capace però di bissare la bellezza di “Bother” o “Through Glass” (canzoni simbolo dei lavori passati). Si capisce immediatamente che le carte in tavola sono ben chiare: anche nei momenti più incalzanti, vedi la bella “Mission Statement”, “Digital (Did You Tell)”, “Unfinished” o “Nylon 6/6”, tutti brani ineccepibili, la ricerca del ritornello melodico è doverosa, come la preponderante virata verso l'orecchiabilità a tutti i costi.

Non uno sbaglio, anzi, sicuramente il punto forte di "Audio Secrecy", per come è stato concepito; probabilmente questa facilità di ascolto, unita a un'ispirazione non sempre brillantissima, penalizza oltremodo il disco, nonostante una produzione eccellente e una prova strumentale di primissimo piano. Bisogna sottolineare inoltre la bella prova di Taylor, che non sarà il primo della classe, ma che riesce a meraviglia a giostrarsi tra il caratteristico urlato (poco) e il pulito. Un bel disco, non c'è dubbio, ben oltre la media delle uscite attuali, il fatto sta a vedere fin quanto potrà durare nei lettori. Dopo quattro anni “Come What(ever) May” ogni tanto fa capolino nel mio, non so se “Audio Secrecy” farà lo stesso.



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