Robert Plant
Band Of Joy

2010, Decca/Rounder Records
Country Rock

Un affascinante viaggio alle radici della musica americana
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 17/09/10

Non c'è che dire, a Robert Plant va riconosciuta una coerenza di ferro. Il nuovo album “Band of Joy” è la testimonianza della nuova dimensione di una delle icone della musica mondiale, evidentemente consapevole dello scorrere del tempo e delle limitazioni che questo comporta. Poco interessato a una “seria” reunion dei Led Zeppelin, rinunciando a sicuri milioni a palate e a un clamore mondiale senza precedenti, ritroviamo il nostro nei panni di un uomo ultra sessantenne, maggiormente a suo agio nel riscoprire e rielaborare la musica da cui partì oltre quaranta anni fa.

Band Of Joy” non è altro che la riproposizione del primissimo gruppo di Plant, in coabitazione con un certo John Bonham, chiamato appunto Band of Joy, dedito a portare nel vecchio continente le influenze blues che arrivavano dagli States. La carriera di Plant prese poi la strada che tutti conosciamo, anche se la passione per questo genere non lo abbandonò mai completamente, riaffiorando sia nei Led Zeppelin, sia nella produzione solista, fino a prendere totalmente il sopravvento con il fortunatissimo “Raising Sand” del 2007, in tandem con la stella del bluegrass Alison Krauss. Un disco che ebbe un enorme e inaspettato successo, con ben sei Grammy Awards e piazzamenti in classifica da record, in cui Plant volgeva uno sguardo alle radici del sound americano, rielaborando brani della tradizione blues, folk e country, con un'eleganza e sensibilità ammirevoli.

In questo contesto si inserisce appunto “Band of Joy”, una nuova ulteriore raccolta di brani storici dell'America degli anni 50/60,  praticamente sconosciuti ai più, rielaborati da Mr Zeppelin e da un manipolo di musicisti di assoluto valore. Benché le affinità concettuali con il pluripremiato “Raising Sand” siano palesi, bisogna dare atto che questo nuovo album si muove su coordinate diverse, facendo leva sull'eclettismo della sterminata cultura musicale degli artisti in gioco, proponendo una tracklist maggiormente eterogenea, meno intima, ma ugualmente di valore. Gli amplificatori a tutto volume, le note urlate, gli assoli, la “blasfemia” rock, evidentemente non appartengono più a Robert Plant, ormai musicalmente trapiantato a Nashville, tra banjo, pedal steel e strumenti acustici. Una semplice raccolta di vecchie canzoni? Non proprio.

È certamente un dato di fatto che un album di inediti continua tardare, segno forse di una vena creativa ormai arrugginita, come è altrettanto vero che se sono questi i risultati, tutti gli appassionati possono rimanere soddisfatti. Infatti l'interpretazione che Robert, aiutato da una band stellare (tutte autorità nel loro campo, da Patty Griffin a Buddy Miller, fino al polistrumentista Darrel Scott), dà alle canzoni di “Band of Joy” è davvero convincente, riuscendo anche a dare un tocco personale vagamente zeppeliniano in alcuni casi, vedi la bella opener “Angel Dance” dei Los Lobos. Un viaggio verso le “roots” della musica americana, affascinante e intenso, che passa in rassegna blues, R&B, folk, country, rock low-fi, alternando frangenti più immediati ("House of Card", "Central Two-O-Nine"), emozionanti soul in "I'm Falling In Love Again", a dei veri momenti magici, come nel caso dei due omaggi ai Low: “Silver Rider” desertica, onirica, quasi una versione meno estrema degli ultimi Earth, con un Plant da applausi, e “Monkey”, ancor più paludosa.

Un bel lavoro, che probabilmente non bisserà il successo clamoroso di “Raising Sand”, a mio avviso su un altro livello, ma che ci dona un musicista in forma, dalla voce sempre inconfondibile, in una veste misurata ed elegante, più consona a un uomo che ha già passato i sessanta e che ha tutto il diritto di fare quello che preferisce. Certo, il ricordo di Plant a torso nudo sulle note di “Immigrant Song” è sempre forte, ma bisogna anche avere il coraggio di sapere quando smettere, proprio per non intaccare il mito, senza scimmiottare se stessi, trovando una nuova direzione artistica su cui scommettere. Plant lo fa ormai da due decenni, sperimentando, rischiando e spesso vincendo. Chapeau.



01.Angel Dance

02.House of Cards

03.Central Two-O-Nine

04.Silver Rider

05.You Can’t Buy my Love

06.I’m Falling In Love Again

07.The Only Sound That Matters

08.Monkey

09.Cindy, I’ll Marry You One Day

10.Harms Swift Way

11.Satan Your Kingdom Must Come Down

12.Even This Shall Pass Away

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