The Cure
Pornography

1982, Fiction Records
Darkwave

Recensione di Federico Botti - Pubblicata in data: 03/10/10

Pornography” fa parte del cosiddetto “periodo dark” dei Cure: eterno ed oscuro capolavoro, fu pubblicato dal gruppo inglese, da sempre guidato dalla carismatica figura di Robert Smith, nel 1982. Chiunque, credo, avrà presente la figura di Smith: smilzo (al tempo), vestito di nero, chioma cotonata corvina, faccia bianchissima, occhi contornati da eyeliner nero e bocca coperta da un rossetto rosso sbavato. Molti lo hanno ridicolizzato nel tempo per questa sua apparenza, molti altri lo hanno imitato, ma in gran parte credo si siano sempre e solo fermati al mero aspetto estetico. La maschera che Smith metteva in gioco non era altro che la stessa scarnificazione dell’uomo, che si presenta nudo e spesso inerme di fronte alle sue angosce e alle sue paure, l’uomo che pur di cercare conforto in qualcosa, non fidandosi più del genere umano, è in grado pure di rifugiarsi nelle droghe, portando se stesso fino al baratro dell’alienazione più completa e del suicidio. Già questo potrebbe bastare a tracciare le linee guida di questo album, così decadente e cupo ma anche disperato e rabbioso. Tanti sono i versi significativi, tanto è il nichilismo che permea ogni singola traccia: “non importa se tutti moriremo”, “...ovunque, moriamo tutti uno dopo l’altro...”. Temi forti, questi, che umanamente, lo capisco, si tende a non affrontare, ma che fanno parte della natura stessa e che vanno accettati e non rifuggiti.

L’apertura, legata a ”One Hundred Years” è tipicamente ottantiana, con la chitarra in feedback e il basso pulsante (strumento, questo, che nei Cure disegna arpeggi sempre molto semplici eppure penetranti ed efficaci). Dai testi traspare palesemente una pesante sensazione di morte e caducità, accettata non in modo sommesso e passivo ma rabbiosamente. Prima vera pietra miliare dell’album è però “The Hanging Garden”: Il basso qui si fa impetuoso, la batteria quasi tribale, la voce di Smith, sempre lagnosa e quasi impastata, diventa qui più impostata e profonda; il tutto concorre efficacemente a rievocare paesaggi spettrali e decadenti. “Siamese Twins” è l’esatto opposto del brano precedente: una nenia ipnotica e magica che crea una sensazione di sospensione unica. Fondamentalmente si basa su un lungo arpeggio di chitarra e di basso che si rincorrono e ripetono incessanti ed inesorabili, arrancando in maniera circolare o, per meglio dire, spiraliforme, avvolgendosi attorno all’ascoltatore e quasi soffocandolo. Passando per la marziale “The Figurehead”, e per la quasi più ariosa (per quanto questo aggettivo possa avere un suo significato nell’oscurità che permea “Pornography”) “A Strange Day”, si arriva all’annichilente “Cold”. La traccia è minimale e scarna, fondata quasi interamente sulle gelide note della tastiera e sulla voce alienante e alienata, eppure riesce ad essere terribilmente claustrofobica e, non credo di esagerare, terrorizzante; di sicuro un altro dei momenti più affascinanti di tutto il disco. Il viaggio malato e sofferente all’interno di “Pornography” termina con la titletrack, non una canzone vera e propria, ma un magma ribollente di rumori confusi ed inserti vari distorti ed irriconoscibili, che non fanno altro che aumentare il senso di confusione e smarrimento dell’ascoltatore.

Questo disco è stato creato da Smith in primis come catarsi dal periodo più buio della sua vita, e di fatto lo ha aiutato nell’esorcizzare una crisi che, probabilmente, lo avrebbe condotto alla stessa fine di Ian Curtis. Assieme a “Faith” e “Seventeen Seconds”, costituisce un trittico di lavori necessari per capire non solo l’evoluzione stilistica dei Cure, ma anche quella di un genere (la darkwave, genere al quale questo “Pornography” ha dato sicuramente tantissimo) e perché no, anche una sottocultura che, nata in quegli anni, è arrivata (ahimè travisata e reinterpretata) addirittura ai giorni nostri.




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