Bring Me The Horizon
Suicide Season

2008, Visible Noise
Metalcore

Recensione di Lorenzo Brignoli - Pubblicata in data: 11/10/10

Alzi la mano chi, quando vede una band giovane, con una popolarità in continua crescita, un’immagine ultra patinata e un numero di fan di sesso femminile più alto della media, non storce il naso e pensa di trovarsi davanti all’ennesima trovata commerciale? Ora, è legittimo che qualche sospetto di, passatemi il neologismo, “commercialità” venga quando ci si trova davanti ad una band che risponde a tutti gli stereotipi sopra elencati e che spadroneggia in questi giorni le copertine di diverse riviste, data la pubblicazione imminente del loro terzo platter, specialmente se viene spesso associata al mai troppo amato “genere” metalcore; però è altrettanto legittimo aspettarsi che un ascoltatore “maturo” dia una possibilità alla band, senza troppi pregiudizi.

Perché questa premessa? Perché mi accingo a parlare degli inglesi Bring Me The Horizon, band che che dopo il fortunato esordio “Count Your Blessings” del 2006 pubblicò sotto l’etichetta Visible Noise questo “Suicide Season”, che aumentò in maniera esponenziale la popolarità della formazione, e perché credo che quest’ultimo sia un grande album, grazie al quale gli inglesi dimostrano di avere una personalità abbinata ad una capacità compositiva più alta della media, a differenza di molte band coetanee e non, e quindi da ascoltare senza i paraorecchi del caso. Il gruppo di Sheffield già con “Count Your Blessings” aveva dimostrato di saperci fare, sfornando un disco debitore a tratti del sound tipico di gruppi come i The Black Dahlia Murder, ma comunque valido. Il salto di qualità però avviene con questo lavoro, dove anche grazie alla produzione perfetta del solito Fredrik Nordstrom i nostri danno vita ad un disco dotato di un groove pazzesco, che colpisce già ad un primo ascolto, grazie alla sua varietà e ad un sound a dir poco “catchy”.

I britannici però non si fermano alla potenza fine a se stessa ma dimostrano di saper andare oltre: basta ascoltare uno dei singoli, “Chelsea Smile”, dotata di due anime che coesistono perfettamente: una energica, tracciata da riff possenti alternati a vigorosi breakdowns ed una sofferente, che ha il suo culmine nella splendida melodia che ne costituisce la spina dorsale. La stessa sofferenza è esplicitata ottimamente anche nella successiva “It Was Written In Blood” grazie alle vocals di Oliver “Oli” Sykes, che si sono evolute dal “semplice” screaming dell’esordio in uno stile decisamente più personale e vario. Almeno metà della tracklist è sopra le righe, non ci sono passaggi a vuoto e le tracce più “deboli” (che costituiscono la parte centrale dell’album) sono comunque godibili e non sono affatto dei banali riempitivi. Oltre alle già citate “Chelsea Smile” e “It Was Written in Blood” tra le migliori composizioni del lavoro rientra sicuramente la splendida “The Sadness will never End” dove il cantato pulito del guest singer Sam Carter, dei connazionali Architects, si intreccia benissimo con le vocals di Sykes, creando così una miscela di grande effetto e soprattutto coinvolgente, cosa non facile di questi tempi. Merita infine di essere segnalata anche la title track, forse la più sofferta dell’album, anche nel toccante testo, e che appunto per questo non passa inosservata, anzi a mio modo di vedere chiude nel modo migliore possibile “Suicide Season”, e ne costituisce un sunto ideale.

Quindi va dato atto alla capacità dei nostri di riuscire ad esprimere e a trasmettere in tutta la loro intensità l’energia e la sofferenza che hanno in corpo, è uno di quei casi in cui si sente che è un disco suonato “con il cuore” e con passione;  di conseguenza questi cinque ragazzi di Sheffield meritano di essere promossi a pieni voti.





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