Faith No More
The Real Thing

1989, Slash Records
Crossover

Recensione di Federico Botti - Pubblicata in data: 07/11/10

Già con “Introduce Yourself” i californiani Faith No More avevano cominciato a far vedere di che pasta erano fatti, ma è con l’arrivo alla voce di un giovanissimo Mike Patton (allora ventenne) che i Nostri esplodono realmente con il conosciutissimo “The Real Thing”. Ora, c’è da dire una cosa su questo gruppo: c’è chi lo considera ininfluente per la scena rock/metal/alternative, chi altresì lo osanna e lo considera alla stregua di semidivinità della musica. Entrambe le posizioni sono ovviamente estreme, ma per quanto mi riguarda mi fermo a una considerazione per me basilare: “The Real Thing” si mangia in un colpo solo gran parte dei dischi di altre band crossover/alternative/nu metal usciti dopo di lui, addirittura fino a oggi. E questo non perché sia un eccelso capolavoro musicale (anche se, è bene dirlo, l’album è in certi momenti un vero spettacolo), ma perché è perfettamente bilanciato nelle sue componenti, suona fresco, innovatore, istrionico e poliedrico come lo stesso suo cantante.

Detto questo, entriamo un po’ nel vivo di questo lavoro. L’apertura è affidata a “From Out Nowhere”, nella quale risaltano sin da subito le caratteristiche del suono di questi ragazzi: tappeti tastieristici di grande atmosfera, fondamenta solide sulle quali si innalza un muro fatto di chitarre ora heavy, ora progressive, basso dalle sonorità funky-jazzate, batteria impegnata in continui saliscendi ritmici e una voce potente, flessibile nell’interpretare registri tra i più disparati (si va dalle interpretazioni più dolci e calme a quelle più dure e acide, passando attraverso momenti quasi rappati). Questi ultimi emergono in larga misura soprattutto in “Epic”, il pezzo che forse meglio ha fatto conoscere la band e che, volenti o nolenti, resterà il loro cavallo di battaglia (almeno per il pubblico più “mainstream”), sorretta com’è da un groove immediatamente assimilabile e accattivante.
“Epic” è degna di nota, indubbiamente, ma per quanto mi riguarda l’apice dell’album si tocca nella sua metà, con la doppietta “Zombie Eaters” – titletrack. La prima è una (inizialmente) dolce e soffusa ballata che spezza decisamente il ritmo sostenuto percepito fin qui, ma non fatevi trarre in inganno poiché già al secondo minuto il brano inizia a ingranare e a macinare piano piano, sorretto dalle solite tastiere epiche e imponenti e da dei riff che ti si insinuano sotto pelle: su tutto si staglia, ovviamente e nuovamente, la maestosa interpretazione di Patton, eccezionale nel suo crescendo. La titletrack è invece una canzone dai toni più seriosi, che abbisogna di tempo per emergere in tutta la sua potenza. Forse un po’ troppo diluita (otto minuti di durata), si sviluppa su continue alternanze vocaliche, melodiche e ritmiche, le quali concorrono ottimamente a creare un sottile filo di tensione che sta alla base di un po’ tutta la composizione.
Non sono poi da meno brani come l’aggressiva “Surprise! You’re Dead”, la sognante e (forse sin troppo) catchy “Underwater Love” e la funkeggiante (ma a tratti quasi progressive) “The Morning After”, ma in generale tutte le undici canzoni sono, per un qualche motivo, degne di nota, con solo pochissimi momenti di flessione.

“The Real Thing” è un disco, per quel che mi riguarda, ancora fresco e fruibile nonostante i suoi 21 anni; è inoltre una delle migliori manifestazioni del crossover “genuino”, nonché a livello tecnico/stilistico una grande prova di tutta la band. I Faith No More si evolveranno ulteriormente, maturando e in un certo senso “invecchiando” con il successivo “Angel Dust”, disco che supererà il qui presente già ottimo “The Real Thing” in quanto a spessore e grado di coinvolgimento dell’ascoltatore.





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