Creedence Clearwater Revival
Willy And The Poor Boys

1969, Fantasy Records
Rock

Recensione di Nicola Gospel Quaggia - Pubblicata in data: 22/11/10

Qualcuno potrebbe storcere un po’ il naso, me ne rendo perfettamente conto, leggendo il voto che ho deciso di assegnare a questo disco. In fondo, mi direbbe questo qualcuno, si tratta pur sempre di dieci canzoni Rock – Blues orecchiabili, fatte bene, suonate bene, ma senza particolari variazioni sul tema. "Cosmo’s Factory" , sempre dei Creedence Clearwater Revival, continuerebbe a dirmi questo qualcuno, è un disco che meriterebbe un otto, ma non "Willy And The Poor Poys".

Io stesso, quando ascolto il disco, mi sorprendo di quanta presa abbia sulla mia povera persona, di quanto facilmente ecciti i miei umori e mi catapulti in un universo bizzarro ed irrazionale, eppure estremamente familiare. La verità è che le dieci canzoni presenti in questo disco, messe insieme, una dietro l’altra, costituiscono un’autentica corazzata del rock’n’roll: sono inaffondabili, non attaccabili da nessun punto le si cerchi di attaccare. Dal primo all’ultimo pezzo si ha una chiara sensazione di resa: si cessa inevitabilmente di pensare a quanto si sta ascoltando e ci si lascia semplicemente trasportare, sarebbe meglio dire scaraventare, dall’energia e dalla carica prodotte dalla voce di Fogerty e dal quartetto nel suo complesso. Gli arrangiamenti sono lineari, quadrati, puliti, solidi. Non c’è spazio per stranezze o per sbavature: ogni parte di chitarra, ogni linea di basso, ogni cosa è presente nella quantità necessaria. La voce. Già, la voce: cercare di descrivere il modo in cui canta Fogerty sarebbe decisamente tempo perso, è emergenza allo stato puro, sembra sempre sul punto di rompersi, sembra il grido di uno che sta nuotando in mezzo all’Oceano Atlantico con un tizio estremamente più grosso di lui, diciamo Dio, che tenta di cacciargli la testa sott’acqua, e lui resta a galla e canta divinamente. “It Ain’t Me, It Ain’t Me”. La grande, grandissima forza di questo disco sta proprio in questo: nella sua economia, nel modo meraviglioso in cui i quattro californiani riescono a far stare insieme egregiamente della musica da contadini, senza strafare, senza eccessi, con eleganza. Questo perché tutto il disco ha un punto in comune che congiunge ogni canzone: un profondo senso di dignità e di voglia di combattere. “Dì tutta la verità, ma dilla obliqua”, diceva Emily Dickinson. In nessun’altra opera trovo questa massima espressa meglio che in questo disco.

E’ un album che più che suonare sembra parlare. Non saprei esattamente indicare di che cosa parli il disco, ma sono molto sicuro del fatto che parla di qualcosa di estremamente importante, direi decisivo, e parla anche molto forte e non ti dà alcuna possibilità di permetterti di non ascoltare quello che ha da dire. Sono dieci canzoni folli: dal primo accenno di charleston di "Down On the Corner" si ha la netta impressione che qualcosa di incredibilmente grosso stia succedendo. E’ una sorta di richiamo all’ordine, di richiamo alla terra, di richiamo alla rabbia. "Fortunate Son" non è altro che l’orgasmo di questa rabbia: il punto d’arrivo. La canzone parla della guerra nel Vietnam e lo fa dal punto di vista del soldato mandato laggiù a prendersi tonnellate di piombo senza capirne il motivo. Nella canzone non vi è traccia del sarcasmo degli altri anthem pacifisti dell’epoca, come "I Feel Like I’m Fixin’ To Die" dei Country Joe And The Fish. Nella canzone non c’è tempo per il sarcasmo: il nemico è alle porte e bisogna pensare a salvare la pelle sparandogli violentemente addosso, maledicendo quei senatori che ti hanno mandato laggiù a fare tutte quelle cose.

La magia di questo disco sta proprio in questo: il modo in cui esso riesce a catapultarti in situazioni e stati d’animo apparentemente tanto distanti dal tuo solito modo di sentire il mondo. Cambia le tue percezioni, le rende reali, fin tanto che dura la musica. Riesci a sentire ogni singola parte del tuo stomaco reclamare qualcosa, spingere verso qualcosa alla quale non riesci ad assegnare un vero e proprio nome, ma che vedi lì di fronte a te e sai di volere fortemente. E’ un lavoro che parla un linguaggio semplice, per niente complicato: campi di cotone, musicisti di strada, contadini che si vedono arrivare giù dal cielo dischi volanti, gente che sgobba per altra gente e che mantiene le promesse fatte da altre persone, guerre combattute per persone alle quali non abbiamo mai stretto la mano e i cui figli probabilmente si stanno divertendo con le nostre ragazze del liceo in qualche università del Massachusetts (magari protestano pure contro la guerra, chissà!), carcerati nella loro cella che sognano un treno che li porti da qualche parte, da qualunque altra parte.

Mano a mano che lo si ascolta, mano a mano che si sta a sentire quella voce assurda, quella voce così rabbiosa e sporca che va ad inserirsi alla perfezione nella pulizia di ogni altro suono, si inizia a dimenticare del luogo in cui ci si trova e si viene catapultati in quel mondo; catapultati in quel mondo che pulsa nello stomaco di ognuno di noi. Quel mondo sporco, pieno di merda, di ingiustizie, di prigioni, di raccolti di cotone andati a male, è lì che balla dentro di noi e non vuole saperne di starsene fermo. E’ questa l’emergenza di cui parlavo quando parlavo della voce di Fogerty: l’emergenza di un mondo, l’emergenza del mondo dello stomaco, delle nostre pulsioni più profonde, dei nostri ruggiti più veri. Il Mississippi di Mark Twain, se volete. La voce scura e profonda del fiume di Huckleberry Finn, che può portare alla libertà, ai pericoli più disparati, alle avventure
più grandiose; un fiume che può portare ad osservare morti cruente, truffe, mentecatti che si travestono da re; un fiume che, nonostante tutto questo, Huck continua a guardare con sincera e disinibita ammirazione, sapendo soltanto che preferisce restare a navigare piuttosto che tornare da quell’ubriacone di suo padre o da quella zia che vuole incivilirlo. Va incontro al destino fumando la sua pipa e chiacchierando con lo schiavo fuggiasco che si porta appresso. Quando ascolto "Willy and the Poor Boys" penso ad Huck Finn, un ragazzo puro e incapace di mentire che se ne va a spasso per un mondo che si comporta all’esatto opposto e che pure non riesce a non amare la vita, il grido della vita.





01.Down on the Corner

02.It Came Out of the Sky

03.Cotton Fields

04.Poorboy Shuffle

05.Feelin' Blue

06.Fortunate Son

07.Don't Look Now

08.The Midnight Special

09.Side o' the Road

10.Effigy

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