Questo 2010 vede il ritorno sulla scena musicale nostrana dei The Black, trio voluto dal chitarrista e cantante Mario Di Donato (affiancato qui da Enio Nicolini al basso e Gianluca Bracciale alla batteria). Il suono dei Nostri è un doom vecchia scuola, come Black Sabbath comandano, condito da accelerazioni e ripartenze degne di nota e da un riffing incredibilmente vario e prolifico.
Di Donato sa infatti il fatto suo per quanto riguarda la sei corde: in ognuno dei 17 (sì avete capito bene, diciassette) pezzi macina linee melodiche con disinvoltura e senza mai ripetersi, abbinando al suo doom anche un gusto prog che rimanda direttamente al periodo d’oro che l’Italia ha vissuto con questo genere una quarantina d’anni fa. E’ però innegabile che ciò che colpisce di più ascoltando questo “Gorgoni”, settimo album dei The Black, sia (come di consueto se si conosce il progetto del chitarrista abruzzese) il suo cantato, o più precisamente, i suoi testi. Il master mind del gruppo scrive e canta le sue liriche totalmente in latino, cosa che può allontanare (e non poco) moltissimi ascoltatori. La scelta inusuale del cantante si deve forse a un maggior coinvolgimento dell’ascoltatore nei pezzi: “Gorgoni” è un concept ispirato a queste figure mitologiche, e la scelta di questa lingua antica come veicolo di comunicazione può rendere la musica dei The Black ancora più ancestrale, cupa e quasi sacrale. A essere positivi questa è la sensazione che si può percepire ascoltando i vai brani del disco, ma se la vogliamo vedere con un’ottica negativa la scelta del latino non può non penalizzare la fruizione generale del lavoro.
Mario Di Donato è un musicista poliedrico, che da sempre ha vissuto e lavorato nell’underground musicale italiano, fregandosene sempre abbastanza di mode e tendenze ma portando avanti la sua strada. Le sue canzoni in latino di certo lo diversificano dalla massa, e sicuramente i suoi fan lo ameranno anche e soprattutto per questo suo anticonformismo, ma siamo proprio sicuri che il latino, per i suoi brani, suoni meglio dell’inglese o, al più, dell’italiano? Mi si dirà che è tutta questione di orecchio, che una volta fattaci l’abitudine questa lingua dona, appunto, quel quid in più alla proposta dei The Black, ma per come la vedo io non si adatta affatto a questo genere musicale. Certe volte appare forzata, la metrica pare saltare, piegata com’è al ritmo e alla melodia del brano, talvolta si ha come l’impressione che testi e musica vadano sì nella stessa direzione ma siano paralleli, su due binari che non si toccano quasi mai. Quanto detto non si applica ovviamente al mero aspetto melodico/ritmico del disco: “Gorgoni” contiene alcune canzoni strumentalmente eccelse, che danno prova del grande bagaglio tecnico/artistico dei Nostri: ne sono un esempio “Monstrum”, “Perseus”, “Phorcus”, “In Lapidem Muto” e la suite strumentale (divisa in quattro parti) “Metamorphoses”, chiara e lampante esemplificazione della solennità e della varietà del suono del gruppo.
“Gorgoni” è un album di difficile valutazione, che ti colpisce subito, in un modo o nell’altro. Come detto a più riprese l’uso della lingua latina è, per l’ascoltatore, il discrimine che separa un giudizio positivo da uno negativo: se si è di mentalità aperta e disposti a dedicare molto tempo a questo album non escludo che alla fine possa portare soddisfazioni, ma se sin da subito il senso di stranezza e di “insolito” che si avverte è così forte da non essere superato si finirà sicuramente per bollare l’album come inascoltabile. Strumentalmente ineccepibile e in grado di soddisfare pienamente gli amanti del doom vecchio stile, “Gorgoni” deve essere quindi ascoltato e valutato attentamente, cercando per un attimo di astenersi da giudizi affrettati e dandogli il tempo di sedimentarsi e di farsi accettare.
Di Donato sa infatti il fatto suo per quanto riguarda la sei corde: in ognuno dei 17 (sì avete capito bene, diciassette) pezzi macina linee melodiche con disinvoltura e senza mai ripetersi, abbinando al suo doom anche un gusto prog che rimanda direttamente al periodo d’oro che l’Italia ha vissuto con questo genere una quarantina d’anni fa. E’ però innegabile che ciò che colpisce di più ascoltando questo “Gorgoni”, settimo album dei The Black, sia (come di consueto se si conosce il progetto del chitarrista abruzzese) il suo cantato, o più precisamente, i suoi testi. Il master mind del gruppo scrive e canta le sue liriche totalmente in latino, cosa che può allontanare (e non poco) moltissimi ascoltatori. La scelta inusuale del cantante si deve forse a un maggior coinvolgimento dell’ascoltatore nei pezzi: “Gorgoni” è un concept ispirato a queste figure mitologiche, e la scelta di questa lingua antica come veicolo di comunicazione può rendere la musica dei The Black ancora più ancestrale, cupa e quasi sacrale. A essere positivi questa è la sensazione che si può percepire ascoltando i vai brani del disco, ma se la vogliamo vedere con un’ottica negativa la scelta del latino non può non penalizzare la fruizione generale del lavoro.
Mario Di Donato è un musicista poliedrico, che da sempre ha vissuto e lavorato nell’underground musicale italiano, fregandosene sempre abbastanza di mode e tendenze ma portando avanti la sua strada. Le sue canzoni in latino di certo lo diversificano dalla massa, e sicuramente i suoi fan lo ameranno anche e soprattutto per questo suo anticonformismo, ma siamo proprio sicuri che il latino, per i suoi brani, suoni meglio dell’inglese o, al più, dell’italiano? Mi si dirà che è tutta questione di orecchio, che una volta fattaci l’abitudine questa lingua dona, appunto, quel quid in più alla proposta dei The Black, ma per come la vedo io non si adatta affatto a questo genere musicale. Certe volte appare forzata, la metrica pare saltare, piegata com’è al ritmo e alla melodia del brano, talvolta si ha come l’impressione che testi e musica vadano sì nella stessa direzione ma siano paralleli, su due binari che non si toccano quasi mai. Quanto detto non si applica ovviamente al mero aspetto melodico/ritmico del disco: “Gorgoni” contiene alcune canzoni strumentalmente eccelse, che danno prova del grande bagaglio tecnico/artistico dei Nostri: ne sono un esempio “Monstrum”, “Perseus”, “Phorcus”, “In Lapidem Muto” e la suite strumentale (divisa in quattro parti) “Metamorphoses”, chiara e lampante esemplificazione della solennità e della varietà del suono del gruppo.
“Gorgoni” è un album di difficile valutazione, che ti colpisce subito, in un modo o nell’altro. Come detto a più riprese l’uso della lingua latina è, per l’ascoltatore, il discrimine che separa un giudizio positivo da uno negativo: se si è di mentalità aperta e disposti a dedicare molto tempo a questo album non escludo che alla fine possa portare soddisfazioni, ma se sin da subito il senso di stranezza e di “insolito” che si avverte è così forte da non essere superato si finirà sicuramente per bollare l’album come inascoltabile. Strumentalmente ineccepibile e in grado di soddisfare pienamente gli amanti del doom vecchio stile, “Gorgoni” deve essere quindi ascoltato e valutato attentamente, cercando per un attimo di astenersi da giudizi affrettati e dandogli il tempo di sedimentarsi e di farsi accettare.