Domenico Cataldo
The Way Out

2010, Videoradio
Alternative Rock

Recensione di Marco Somma - Pubblicata in data: 13/12/10

Due sono i grandi ostacoli che ogni buon musicista italiano deve affrontare e, con tutti gli sforzi del caso, cercare di superare:

-La mentalità da oratorio dell’industria discografica italiana
-Le scelte di produzione maccheronica che gravano sui platter made in Italy

Se state pensando che chi scrive ha deciso di prendersi lo spazio di questa recensione per divagare sulla situazione della musica nel bel paese siete in errore. Quelle qui sopra sono osservazioni che non solo riguardano da vicino il disco in oggetto, ma sfortunatamente sono anche le prime osservazioni che vengono alla mente infilando il disco nel lettore. Domenico Cataldo è un professionista di tutta stima, un chitarrista di un certo spessore dotato di un discreto tocco e “The Way Out” ne è la prova inconfutabile. Detto questo purtroppo vengono le note dolenti di cui sopra.

Muovendosi in uno spazio dai confini non del tutto definiti, tra un progressive d’altri tempi e una ricerca sonora degna di un buon conservatorio, Cataldo mette insieme sette delle migliori tracce di quel rock che da qualche tempo ai redattori italiani piace chiamare “alternativo”, o almeno quello avrebbe potuto fare affidandosi a ben altra produzione. La prima song può essere percepita tranquillamente come una lunga introduzione, le poche note alla “Spanish Caravan” che si aprono senza alcun preavviso su distorsioni elettriche, mettono subito nella giusta predisposizione mentale… Poi però avviene il fattaccio. Una tastiera dal suono poco professionale si insinua tra le note di chitarra sposandosi con effetti che sembrano usciti da un videogioco anni 80', conferendo al tutto una sgradevole sensazione d’amarcord. Dopo una brevissima introduzione di chitarra costruita su un riff d’impronta rock fin troppo facilone, “Pay Attention” si sviluppa tra accenti acid jazz e fusion, ritrovando il riff solo di tanto in tanto. Seppur gradevole, la traccia perde in efficacia ogni qual volta si cerca la fuga verso i lidi più ruvidi e diretti della musica post ’50. Anche mettendo da parte per un attimo la diatriba sulla produzione, l’incontro tra sacro e profano, cuore e mente o più semplicemente jazz e rock, richiederebbe ben altro sforzo compositivo. I due generi qui si incontrano ma non si fondono neppure per un istante.

“Awaiting” si concede finalmente qualche minuto lontano da distorsioni e digressioni hard rock, mantenendosi nella prima parte saldamente ancorata ad un buon “ambient” morbido e poco impegnativo. Poche note di tastiera, la stessa sentita nell’introduzione solo appena più sopportabile, ci fanno improvvisamente saltare a pie pari da lidi tanto accomodanti a una piattaforma sonora instabile, apparentemente incapace di decidere se mutarsi in elettro-lounge o cedere al solito giro hard-rock. “Land of Disire” non è neppure realmente definibile tanti e tali sono i continui cambiamenti nei quattro minuti scarsi che la compongono. All’ennesimo ascolto si direbbe che non accada, di fatto, nulla che non si sia già sentito nelle tracce precedenti, ma è tutto talmente rimescolato che si fatica a riconoscerlo. “The Way Out” costituisce il momento più interessante fino ad ora. Progressive dall’inizio alla fine, in debito continuo verso quei Dream Theater di “Metropolis II”, riesce a sorprendere grazie a tutti quei cambiamenti di tempo, battuta, punto e contrappunto d’obbligo per il genere che arrivati a questo punto non ci si sarebbe più aspettato. Proseguendo nell’ascolto si direbbe che Cataldo abbia scelto di approfondire sempre più il discorso progressive, venendo però assalito di continuo dalle reminiscenze fusion che pur mal si accordano con il contesto. In “The Way Out” si può trovare un potpourri di quanto di meno invasivo la musica moderna abbia sviluppato dal jazz in avanti, con solo rari e timidi inserti aggressivi da parte di un hard rock che viene trattato come un argomento da prendersi con le pinze, scomodo e vagamente imbarazzante.

Di fronte a dischi come questo è facile farsi fuorviare dalla produzione “fatta in casa”, a partire dai suoni, passando dalla grafica e arrivando cosi al mixaggio col risultato di bollare come musica di seconda classe, dischi di tutto rispetto. Non è però questo il caso. La produzione è si un po’ casalinga (molto se si valuta sul piano sonoro), ma i difetti veri purtroppo sono nella musica. Per valutarla è necessario ascoltarla, un’osservazione questa che potrebbe apparire scontata ma che dati presupposti non lo è. Per poter valutare debitamente il lavoro di un artista, e qui di artista si tratta e su questo non si discute, bisogna concedergli attenzione, provare anche a comprenderlo tal volta. Tutto questo sforzo, a partire da quello del musicista per arrivare a quello del “critico”, senza contare quello del lettore prova a trovare utili informazioni nella recensione, merita poi un giudizio il più sincero ed obbiettivo possibile… “The Way Out” è sinceramente e obbiettivamente un disco poco riuscito, specchio di un musicista di grande professionalità che brilla però solo in un paio degli ambiti in cui a scelto di cimentarsi. Ben più interessante sarebbe vederlo tornare ad incidere qualcosa di “semplicemente” jazz o perché no lounge. Ogni artista, che appartenga al mondo dorato della musica o quello della carta stampata deve sempre ricordare che al di là delle sperimentazioni ed esigenze personali, quando decide di proporsi al mondo, dovrebbe provare a dare sempre solo il meglio!



01. Limbo

02. Pay Attention

03. Awaiting

04. Land of Desire

05. The way out

06. I’m Searching For A New Identity

07. Finally I Can See The Universe

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