Pensieri sparsi, malinconia diffusa: la scomparsa di Steve Lee ha lasciato il segno, ovunque. Alcuni di voi sono a conoscenza del mio attaccamento ai Gotthard, non solo questioni affettive mi uniscono infatti al gruppo elvetico, ma perfino questioni lavorative che negli ultimi anni mi hanno permesso di conoscere in profondità ogni membro della band. Potete perciò anche solo provare ad immaginare quanto sia difficile, per il sottoscritto, misurarsi con la recensione di un disco di commiato, triste saluto all’uomo gentile e all’impavido cantante, entrato di diritto e con merito nel paradiso del rock.
Destino bizzarro. Di ritorno da un viaggio nel sud Italia, nei pressi di Firenze, Steve e la compagna Brigitte rischiarono la vita per un tamponamento a catena di cui sono stati gli incolpevoli e sfortunati protagonisti. Neanche il tempo di pronunciare la frase “credo di avere per angelo custode un fan della musica rock” che accade l’inimmaginabile: il cinque ottobre duemiladieci l’agognato, sudato e sognato coast to coast americano su Harley Davidson si è concluso drammaticamente in California. Incidente per il quale Steve è di nuovo incolpevole, ma questa volta non ce l’ha fatta… l’angelo se l’è portato con se in paradiso.
E allora andiamo a raccontare Heaven, l’ultima collection dei Gotthard di Steve Lee che si abbina a quel “Best Of Ballads” campione d’incassi nel 2002, quando la romantica “One Life One Soul”, cantata in duetto con Monsterrat Caballet, faceva il giro del mondo strappando fiumi di lacrime. Il disco raccoglie diciassette brani, registrati tra il 2003 e il 2009, include un pezzo inedito (“What Am I”) e due versioni acustiche dei classici “Have A Little Faith” e “Falling”. Ogni traccia è un sussulto; Steve interpreta ogni nota alla perfezione, donando corpo e anima ad ognuna di esse, lo stesso corpo che ha cessato di vivere nell’incidente ma la stessa anima che invece continua a ribollire dentro quei brani. Tutte ballate romantiche, dall’andatura che varia dal lento iper-classico cesellato da chitarra acustica e violino, “One Life One Soul”, a quello un po’ più vivace incluso assolo di chitarra elettrica, “The Call”. I titoli, letti oggi, hanno un sapore assai amaro, perché in qualche modo si ricollegano alla scomparsa del compianto Steve: da “Heaven” per l’appunto, a “Tears To Cry”, da “I’ve seen An Angel Cry” a “Tomorrow’s Just Begun”, da “Falling” a “And Then Goodbye”.
Difficile, se non impossibile, trovare un gruppo rock che in soli sette anni sia riuscito a racimolare tante e tali ballate, perfette quando avrete bisogno di ricreare un’atmosfera romantica e soffusa, essenziali se volete tornare ad assaporare la magia della voce di Steve Lee sentendolo vivere, una volta ancora, dentro di voi.
Vi lascio con un piccolo aneddoto. Qualche mese fa, dopo una cena tra amici, chiesi a Steve quale fosse il vantaggio più grande dell’essere una rock star e mi rispose così: “I vantaggi e gli svantaggi si equivalgono, l’unica cosa che conta davvero è salire sul palco e regalare, attraverso la mia voce, momenti di pura spensieratezza”.
Il cuore si è fermato, la voce risplende più che mai, quella resta nella storia. E tra i pensieri sparsi e la malinconia diffusa non mi resta che esclamare un “grazie Steve, ci manchi da morire”.