Capita di tanto in tanto di incappare in dischi strani, criptici: te li ascolti per intero una volta, arrivi alla fine e pensi “ma cosa diavolo ho ascoltato?”. Li ascolti una seconda volta, arrivi nuovamente alla fine e ti chiedi: “sì bene, ma stringendo cosa me ne rimane?”. Ecco, queste sensazioni, queste domande, sono le stesse che ho provato e che mi sono posto dopo svariati ascolti dell'album di debutto di Bruce Lamont, “Feral Songs For The Epic Decline”.
Il personaggio in questione altro non è che il frontman degli statunitensi Yakuza, band insolita nel panorama metal (per certi versi assimilabile ai nostrani Zu o Ephel Duath), fautrice di un metal che fonde al suo interno inserti progressive, jazzati e post metal. E il Nostro pare proprio partire dai lavori della sua band per quanto riguarda il genere proposto in questo suo album solista: sette brani che non possono propriamente essere definiti “canzoni”, privi come sono di una struttura lineare e razionale. Sono quasi più percezioni, viaggi sensoriali scaturiti da trip acidi, parentesi lisergiche alienanti e straniate, che in più di una situazione lasciano quantomeno perplessi. Ascoltando il disco, le strutture che porta con sé, le ritmiche, le emozioni che fa scaturire, sembra talvolta quasi di addentrarsi in meandri drone: psicopatiche vibrazioni malvagie volteggiano sopra la tua testa, fluttuano nell'aria al suono di “One Who Stands On The Earth”, pezzo dall'incedere sciamanico e tribale, nel quale il buon Bruce più di una volta fa il verso, alla voce in clean, ai Neurosis, con risultati tutto sommato anche buoni. Il pezzo avanza piano, cresce e muta lentamente forma sino a implodere sul finale, con un fare classico delle strutture post rock/post metal. Si tratta però purtroppo dell'unico momento buono all'interno di un album che non riesce a arrivare alla sufficienza.
I brani successivi rimuovono anche quel poco di melodia presente nella prima traccia, a favore di impianti noise e rumoristici spettrali e confusi, un panorama post apocalittico sul cui sfondo si muovono figure imprecisate e sfocate, echi e riverberi dal sapore orientale e mistico, che ti accalappierebbero anche, se solo avessero un qualche sviluppo e non fossero buttati là come miraggi nel deserto. Fanno eccezione giusto “Year Without Summer” e “2 Then The 3”, unici brani assieme all'iniziale primo pezzo che possono essere salvati in questo confuso marasma musicale.
I casi sono due: o Lamont è un genio e la sua arte (fuori dagli Yakuza) è per pochi eletti in grado di capirla, oppure il Nostro, guidato dalla tanta voglia di sperimentare e di non avere barriere, è di fatto andato fuori dal seminato, valicando un po' troppo certi confini dai quali, tutto sommato, sarebbe bene non allontanarsi poi tanto. A voi la scelta dunque, un ascolto se lo merita, se non altro potete mettervi alla prova e capire se (e quanto) il vostro orecchio è incline alle avanguardie musicali.
Il personaggio in questione altro non è che il frontman degli statunitensi Yakuza, band insolita nel panorama metal (per certi versi assimilabile ai nostrani Zu o Ephel Duath), fautrice di un metal che fonde al suo interno inserti progressive, jazzati e post metal. E il Nostro pare proprio partire dai lavori della sua band per quanto riguarda il genere proposto in questo suo album solista: sette brani che non possono propriamente essere definiti “canzoni”, privi come sono di una struttura lineare e razionale. Sono quasi più percezioni, viaggi sensoriali scaturiti da trip acidi, parentesi lisergiche alienanti e straniate, che in più di una situazione lasciano quantomeno perplessi. Ascoltando il disco, le strutture che porta con sé, le ritmiche, le emozioni che fa scaturire, sembra talvolta quasi di addentrarsi in meandri drone: psicopatiche vibrazioni malvagie volteggiano sopra la tua testa, fluttuano nell'aria al suono di “One Who Stands On The Earth”, pezzo dall'incedere sciamanico e tribale, nel quale il buon Bruce più di una volta fa il verso, alla voce in clean, ai Neurosis, con risultati tutto sommato anche buoni. Il pezzo avanza piano, cresce e muta lentamente forma sino a implodere sul finale, con un fare classico delle strutture post rock/post metal. Si tratta però purtroppo dell'unico momento buono all'interno di un album che non riesce a arrivare alla sufficienza.
I brani successivi rimuovono anche quel poco di melodia presente nella prima traccia, a favore di impianti noise e rumoristici spettrali e confusi, un panorama post apocalittico sul cui sfondo si muovono figure imprecisate e sfocate, echi e riverberi dal sapore orientale e mistico, che ti accalappierebbero anche, se solo avessero un qualche sviluppo e non fossero buttati là come miraggi nel deserto. Fanno eccezione giusto “Year Without Summer” e “2 Then The 3”, unici brani assieme all'iniziale primo pezzo che possono essere salvati in questo confuso marasma musicale.
I casi sono due: o Lamont è un genio e la sua arte (fuori dagli Yakuza) è per pochi eletti in grado di capirla, oppure il Nostro, guidato dalla tanta voglia di sperimentare e di non avere barriere, è di fatto andato fuori dal seminato, valicando un po' troppo certi confini dai quali, tutto sommato, sarebbe bene non allontanarsi poi tanto. A voi la scelta dunque, un ascolto se lo merita, se non altro potete mettervi alla prova e capire se (e quanto) il vostro orecchio è incline alle avanguardie musicali.