Un tempio arcano isolato dalle acque. Fronde di spigolosi squamiforme che si proiettano nella contratta realtà evocata dalla quarta cornice del Die Toteninsel di Arnold Böcklin. Un misticismo alla base del ciclo vitale. La trasposizione di un culto che ruota attorno alla morte e alla resurrezione di un re-sacerdote sacro. Un ramo d’oro, il risveglio di primavera, la chiave per tornare nella terra dei vivi. Le teorie di Sir James Frazer e, infine, un antico tomo proibito macchiato a sangue dalle profezie del solitario di Providence, H.R.Lovecraft.
“The Golden Bough”, debutto dei tedeschi Atlantean Kodex, è un po’ tutto questo. Uno studio sulla magia e la religione finalizzato all’esposizione in musica di uno stile vecchio e mitologico come le teorie contemplate a livello testuale: l’epic metal. A ben vedere, quindi, nulla di particolarmente progressista. Un volume volutamente voluminoso, greve, epico e marziale. Quello che praticamente Quorthon faceva vent’anni fa, senza nessuna distinzione, gli Atlantean Kodex lo fanno oggi, con la piccola differenza che, a mio modo di vedere, bisogna fare dei due pesi due misure. Tecnicamente cambia poco o nulla, anche il pathos espresso è potenzialmente credibile, ma affrontare per intero l’album può risultare pesante come un pellegrinaggio forzato dalla devozione. Dalla stampa specializzata, sia italiana che estera, The Golden Bough è stato accolto tra lodi e corone d’alloro, ma io non ci vedo altro che un tributo ben fatto ai vari signori della guerra metallica, ma posso benissimo sbagliarmi. Canzoni lunghe, tempi cadenzati, cori maestosi etc etc. Ok, tutto molto bello. Ma se devo sentirmi Hammerheart o Twilight of the Gods preferisco di gran lunga gli originali.
Gli Atlantean Kodex, visionari di un nuovo mondo ancestrale, custodi del passaggio tra i due mondi, cantori di folclore e grezzi metallari, portano l’acqua al proprio mulino facendo leva sui monumenti epici degli anni novanta e ottanta, aprendo la strada a una sequenza mortalmente anacronistica ma di sicuro effetto.