Tom Waits
Swordfishtrombones

1983, Island Records
Alternative Rock

Recensione di Nicola Gospel Quaggia - Pubblicata in data: 21/01/11

Cercare di descrivere un disco di Tom Waits come se si trattasse di un’opera di un qualunque artista, sarebbe un azzardo tanto stupido quanto sicuramente infruttuoso. Generalmente mi ritengo un appassionato di primi album, nel senso che adoro il grezzo, l’incompiuto, il senso di messo insieme alla rinfusa che viene fuori dai lavori d’esordio dei musicisti. In certi primi dischi si può intuire l’energia, i vent’anni, la potenza ed il bisogno di fare musica, una potenza ed un bisogno talmente forti, da rendere quasi impossibile, alle volte, organizzare decentemente il tutto. Adoro ciò che è caotico.
 
Swordfishtrombones” è un disco fatto apposta per ribaltare questa mia ridicola ed assolutamente arbitraria presa di posizione a favore dei vent’anni. Tom Waits aveva trentaquattro anni quando lo pubblicò ed era il suo ottavo album, che veniva a dieci anni esatti di distanza dal suo esordio discografico “Closing Time”, una raccolta di canzoni da piano-bar e poco più. Eppure “Swordfishtrombones” ha tutte le caratteristiche di un primo album. Tolta l’età (avere trentaquattro anni è ben diverso dall’averne venti), tolta la faccenda del “primo disco” in senso cronologico, resta tutta l’innominabile energia e resta la feroce emersione di quel bisogno di cui parlavo poco fa. Sembra quasi di trovarsi di fronte ad un tentativo, da parte del cantautore californiano, di cannibalizzare il proprio background musicale, di lacerare le membra della musica che aveva fino ad allora prodotto per consegnare al pubblico i brandelli risultanti da questa lacerazione.  Il blues fatto a pezzi. E’ come se il piano-bar avesse chiuso e tutte le bottiglie dei liquori fossero state affidate ad una banda di depravati armati dei più svariati strumenti musicali spediti in giro per la città a scorrazzare e a fare danni. In questo disco, Tom Waits prende tutto ciò che in linguaggio musicale significa Stati Uniti d’America, lo divora e ce lo restituisce masticato e rimodellato da una strana saliva.
 
Il disco si apre con una eccelsa carnevalata in stile zombie, “Underground”, nella quale le percussioni, cadenzate egregiamente da un bassotuba, annunciano l’invasione di strani animaletti direttamente dalle casse dei nostri poveri e malcapitati apparecchi hi-fi. La chitarra elettrica sembra prendere in giro chi ascolta, accompagnando percussioni e tuba con accenti sarcastici e acuti, ricamando disordinatamente intorno alla sezione ritmica. Immaginatevi una banda militare composta da morti viventi e ubriachi, guidata da un capitano completamente pazzo e furioso che urla e sputazza in giro i propri simpatici anatemi. Sarebbe assai riduttivo dire che Tom Waits, in questo brano, faccia il verso a Captain Beefheart. Tom Waits è una di quelle poche persone che hanno la fortuna di migliorare invecchiando. Da “Swordfishtrombones” in poi, la sua voce non ha mai smesso di regalare piacevoli sorprese agli ascoltatori. In “Underground” sembra essere lontano anni luce dal disincantato e liquoroso pianista di “Closing Time” o di “The Heart of Saturday Night” (i suoi primi due album). E’ come se Beefheart, Howlin’ Wolf, trenta milioni di pacchetti di Marlboro e tutti i cattivi di tutti i cartoni animati della storia gli fossero entrati in corpo per fargli sputare fuoco e fiamme addosso a quella banda di debosciati, a cui nel frattempo si è unita, inspiegabilmente, una marimba suonata anche peggio di tutto il resto. Tutto questo baccano dovrà pur portare da qualche parte, mi direte voi, ed è nel peggiore degli incubi alcolici che si va a schiantare. “Shore Leave” è un autentico gioiello di dissonanza e di atmosfere macabre. Una quantità impressionante di strumenti lasciati andare alla deriva accompagna il discorso della voce, che parla molto piano, (filtrata da litri e litri di chissà che cosa trangugiati) e dipinge un affresco a dir poco inquietante per poi lasciarsi andare ad un grido lancinante alla fine della canzone.  Una buona espressione idiomatica può certo aiutarmi a definire questa canzone: hanno perso la bussola. Che sia stato Ahab a disintegrarla o che la si abbia regalata a qualche puttana in cambio dei suoi favori, poco importa: la bussola è stata persa e non sembra poter essere ritrovata. Nel pezzo Tom Waits afferma di trovarsi ad Hong Kong, ma potrebbe essere ovunque. Ovunque ci sia qualcosa di poco edificante da fare, ovviamente. E poi c’è questa donna dell’Illinois alla quale scrive a dare a tutta la canzone un’aria ancora più atroce. Un marinaio in congedo, completamente allo sbando, che se ne va in giro a bazzicare taverne e cattive compagnie e in tutto questo, trova il tempo per ululare alla luna tutto l’amore per questa moglie dell’Illinois, senza nemmeno chiedersi cosa stia facendo questa donna nel frattempo (si sa, a fare i marinai…). La canzone successiva, “Dave The Butcher”, me la immagino sempre come l’uscita barcollante di questo marinaio dal bar in cui si trova. Si può benissimo pensare di sostituire quell’Hammond così inquietante con i goffi tentativi dell’ubriaco di appoggiare un piede dietro l’altro sul suolo. Un movimento di budella continuo con deliranti percussioni africane ad accompagnare il nostro marinaio non si sa bene dove. “Johnsburg, Illinois” è probabilmente il luogo in cui questo marinaio vorrebbe essere. Solo Tom Waits, la sua voce, ed il suo piano. Il canto di un innamorato lontano dalla sua donna, che guarda il nome di questa donna tatuato proprio di fianco al suo sul suo braccio. Un meraviglioso intervallo di dolcezza, che mi ricorda sempre il motivo per il quale adoro Tom Waits. Tom Waits è chiassoso, scorreggione, violento, diabolico, orgiastico; ma Tom Waits è anche il marinaio che si guarda il braccio tatuato e ripensa agli alberi della fattoria dove sta la sua donna. E’ vita allo stato puro: follia, indecenza, urla, sbraiti, coltelli, pornografia, amore abbaiato alla luna, donne lontane, lacrime profumate. L’intervallo di tenerezza all’interno del disco, serve a preparare l’ascoltatore al delirio successivo.

“16 Shells From a 30 Ought-Six” è forse la canzone che consiglierei di ascoltare per prima a chi non abbia mai ascoltato il disco. Qui, infatti, si raggiunge l’acme, la pura follia. In nessun’altra canzone Tom Waits riesce ad eguagliare la rabbia viscerale che esce da questo assoluto capolavoro. Mentre la si ascolta può accadere di tutto: ci si può credere epilettici, si può avere la tentazione di recarsi al più vicino supermercato e rapinarlo, approfittare del fatto che il vicino non ci ha salutati sulle scale per andare a malmenarlo con una scopa di saggina munita di spunzoni, fare a gara di testate contro il muro, dare pugni alle finestre sfondando le finestre dando poi la colpa al gatto. Il ritmo è cadenzato e regolare, la chitarra ripete ossessivamente il riff iniziale e la batteria si mantiene diritta, senza sorprese, quasi dub. Questo è un pezzo fatto per essere urlato, e l’urlo di Tom Waits pretende che tutto intorno a lui ci sia ordine e disciplina: nulla deve distogliere l’ascoltatore da quelle grida. Non sono grida isteriche, sono grida viscerali, di disperata potenza. Dopo la desolata “Town With No Cheer”, viene la splendida “In The Neighborhood”, la quale, con un’atmosfera da bando medievale, ci introduce nello scenario di un quartiere insopportabile, dove nulla funziona come dovrebbe. La voce, in questa canzone, si fa solenne, come se dovesse rivelare il più importante dei segreti, militarizzata dal continuo incedere delle rullate del batterista. Un dolce intermezzo strumentale, messo apposta per rendere meravigliosa la vita a chi lo ascolta, irrompe dunque con dolcezza. “Just Another Sucker On The Vyne” è una deliziosa danza per harmonium e tromba. L’immagine più immediata è quella di un uomo che asciuga le lacrime alla sua donna (o il contrario, se preferite.) dopo una lunga lite causata da futili motivi, per ridere insieme a lei della loro meravigliosa stupidità. Le canzoni precedenti ci descrivono un mondo derelitto, allo sbando, sempre sull’orlo del baratro. “Just Another Sucker On The Vyne” è la danza che compiamo intorno a quel baratro, dimenticandoci per un attimo di quanto faccia schifo tutto il resto. Per un minuto e quarantasette secondi nel mondo esistono solo quell’harmonium e quella tromba. E le guance. E le lacrime.  “Frank’s Wild Years” (titolo che sarà poi riutilizzato due album più avanti) ci accompagna nella vita orribile di un uomo che decide di dar fuoco a tutto, anche al chiuahua con problemi alla pelle. L’organo Hammond in soffondo riesce a rendere tutto questo estremamente leggero e divertente. “Dove vai?” chiedo io, “A dar fuoco a tutto” risponde l’Hammond, come se fosse la cosa più naturale da fare al mondo. Dopo la title track, ad esplodere è “Down, Down, Down”, un blues frenetico e allucinato, suonato a mille all’ora e cantato con una violenza quasi disinteressata.  E’ però “Gin Soaked Boy” a dare la voce migliore al blues di questo disco, in pieno stile Howlin’ Wolf, ritmica alla “I’m The Wolf”, e accenni continui di chitarra alla “Going On Down The Line” di Earl Hooker, sebbene decisamente più violenti ed insistenti.

Scrivere una recensione di un disco di Tom Waits, per quanto mi riguarda, è estremamente pericoloso. Si attraversa infatti un campo nel quale è molto difficile scadere nella banalità e nei luoghi comuni. Quante volte, infatti, avrete letto panegirici sull’America disperata, l’America disillusa, l’America sconfitta, leggendo di Tom Waits! Secondo me, il punto non può essere questo. Ho sempre adorato Tom Waits, e l’ho sempre considerato il più completo tra gli artisti che conosco, perché riesce, meglio di chiunque altro, a farmi tuffare in quel tipo di stato d’animo che per vivere in una società civile devo per forza di cose tenere a bada per la maggior parte del tempo. Lo stato d’animo che mi dice che anche qualora dovesse andare tutto in malora, ci sarebbe sempre motivo e bisogno di danzare ubriachi da qualche parte. Tom Waits non mi parla mai di sconfitta o di rassegnazione, tutt’altro! Quando ascolto questo disco mi sento rinfrancato, riabilitato, migliore. Il motivo non ve lo so dire, ma se sapessi darvene un motivo, non si tratterebbe di un capolavoro.




01.Undergroud

02.Shore Leave

03.Dave The Butcher

04.Johnsburg, Illinois

05.16 Sheels From A Thirty Ought Six

06.Town With No Cheer

07.In The Neighborhood

08.Just Another Sucker On The Vine

09.Franks's Wild Years

10.Swordfishtrombone

11.Down, Down, Down

12.Soldier's Things

13.Gin Soaked Boy

14.Trouble's Braids

15.Rainbirds

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