El Santo Nada
Tuco

2010, Autoproduzione
Alternative Rock

Recensione di Nicola Gospel Quaggia - Pubblicata in data: 28/01/11

Nati come progetto parallelo della band abruzzese Il Santo Niente, gli El Santo Nada offrono con "Tuco", loro album di debutto, un’ottima interpretazione delle atmosfere desertiche, con delle canzoni che, per chi come chi scrive ha avuto la fortuna di visitare quei luoghi, non possono che rimandare inevitabilmente al Sud Ovest degli Stati Uniti.

Ed è proprio in quei luoghi che va ricercata la chiave di lettura dell’album: la frontiera, la mescolanza delle razze, gli enormi spazi a disposizione di chiunque abbia voglia di avventurarsi in luoghi come il Mojave Desert o la Death Valley, e serpenti a sonagli, tantissimi serpenti a sonagli che sbucano fuori dai cespugli sotto un sole cocente. Per gli appassionati del genere, non sarà difficile riconoscere nelle note di questo disco le influenze del Ry Cooder di “Paris, Texas”, degli Arrows di Davie Allan (specialmente del loro fortunatissimo disco “Apache 65”), di qualcosina dei Sun City Girls, (non troppo a dire il vero, ricordano, più che altro, i lavori in solitaria del leader, il chitarrista della scena di Phoenix Richard Bishop) vaghi richiami al primissimo John Fahey, maestro indiscusso del genere desertico, e perfino alcune reminiscenze degli album dei Pink Floyd immediatamente successivi all’abbandono di Syd Barrett (mi riferisco ad “A Saucerful of Secrets” e “Atom Heart Mother” in particolare), anche se non saprei dire esattamente in che cosa “Tuco” possa esser stato influenzato dai Pink Floyd, si tratta più che altro di una questione di atmosfera. Ed è proprio l’atmosfera che questo disco riesce a creare a catturare interamente l’attenzione dell’ascoltatore. Non si ha tempo di soffermarsi sui dettagli tecnici, di stare a pensare a come i pezzi siano suonati.

E’ musica fatta per scivolare addosso dolcemente, non si permette mai di intromettersi con violenza all’interno della tua situazione emotiva, e ti accompagna lungo la strada, come il vento accompagna il cavaliere solitario nel deserto. Solitudine, questa è la parola fondamentale: si tratta di un disco eroicamente solitario nel quale si respira una strana e misteriosa aria di inevitabilità. L’ unica pecca dal punto di vista stilistico, anche se faccio davvero fatica a definirla pecca, è la totale assenza del cantato. Non so perché, ma non mi riesce assolutamente difficile immaginare un Nick Cave sussurrare le proprie maledizioni sulle note di questo album, che suona “maldido” dalla prima all’ultima nota. Le litanie dell’australiano si sposerebbero alla perfezione con le atmosfere lugubri di questo piccolo capolavoro, e questo è uno dei maggiori complimenti che si possano fare ad un qualunque musicista. Gli El Santo Nada confermano la felice (forse inspiegabile) affinità dell’Italia con il genere western, col mito/antimito della frontiera occidentale. L’occidente è, per definizione, la terra della morte. Il sole va a morire ad occidente. Questo disco potrebbe suonare come un piacevolissimo accompagnamento di quella marcia che noi tutti compiamo verso occidente. Non si può tentare di analizzarlo traccia per traccia. Le tracce, le singole canzoni, servono solo a non perdersi all’interno del lavoro. Si tratta di un unico lunghissimo lamento, di un unico lunghissimo viaggio. Strani paesaggi allucinati, nemici che ci si parano di fronte, mano sempre sulla pistola, troppe storie da raccontare, troppe brutte cose viste per poter tentare di organizzare un discorso sensato al riguardo.

Si tratta di nove gioielli dominati da una chitarra suonata con molta maestria e accompagnati da una sezione ritmica (basso e batteria fanno davvero un grandissimo lavoro) che offre il maggior contributo all’atmosfera maledetta di tutto il disco. Si potrebbe quasi affermare che la sezione ritmica sia la maledizione, l’inevitabilità di cui parlavo poco fa, e che la chitarra e il synth siano il discorso del cavaliere maledetto, i suoi passi sulla sabbia rovente del deserto. Un uomo, un bandito probabilmente, abbandonato in mezzo alla Death Valley che ripete tra sé e sé strane formule magiche contro i compagni che l’hanno lasciato là senza acqua e viveri, senza nemmeno il cappello per proteggersi dal sole cocente. Un’unica cosa mi lascia l’amaro in bocca, ascoltando questo disco: la paura, cioè, il timore fondato che possa non essere apprezzato quanto meriterebbe. Non si tratta di un lavoro rivoluzionario, non si tratta di un disco che cambierà la storia della musica; si tratta semplicemente di un’ottima e molto sentita interpretazione di un genere che non è definibile e che include talmente tanti artisti di correnti tanto diverse, da rendere inutile ogni tentativo di assegnare ad esso un nome.

Gli El Santo Nada entrano di diritto in quella categoria di musicisti che hanno scelto di voler attraversare il deserto e di portarci qualche notizia da quel luogo torrido ed inospitale. Questo disco non sfigurerebbe affatto se messo di fianco a “The First Born is Dead” di Nick Cave, “Paris, Texas” di Ry Cooder e “Fare Forward Voyagers” di John Fahey. L’unica cosa che davvero manca a questo disco è un pubblico, ovvero un nutrito numero di persone che abbiano il coraggio di lasciarsi trascinare all’interno dell’incubo desertico. Dunque, ¡Viva! El Santo Nada. Piacevolissima scoperta, attendo fiducioso numerosi seguiti a questo loro debutto.



01.Tuco

02.Gallinas y Lagartos

03.Sciuorbazizi

04.Las Nuevas Fashion Chicas

05.Ilusion

06.El Sol De Hierro

07.EL Perdido

08.Viva la Revolucion

09.Esto no Es el Final

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