Deadpeach
2

2011, Go Down Records
Alternative Rock

Recensione di Nicola Gospel Quaggia - Pubblicata in data: 31/01/11

Metto il cd nel lettore, schiaccio play, senza sapere cosa aspettarmi, e mi ritrovo ad ascoltare un’intro di chitarra e batteria che mi riporta piacevolmente indietro di almeno quarant’anni. I  Deadpeach riescono subito a catturare la mia attenzione e a guadagnarsi la mia simpatia.

 

La chitarra spadroneggia incontrastata al centro dell’area di rigore, come il Vieri dei tempi migliori. Una chitarra come Vieri a far da centravanti e due seconde punte di peso, il basso e la batteria, diciamo un Miccoli, il basso, ed un Ibrahimovic versione assistman, la batteria. Per quanto riguarda la voce, devo dirlo, resto subito deluso. E’ solo una mia opinione, e non ho alcuna intenzione di insegnare il mestiere a nessuno, specialmente a musicisti capaci e quadrati come i Deadpeach. Ma con tanta potenza strumentale mi sarei aspettato qualcosa di decisamente più cattivo, più potente. Non che il cantante, che peraltro è anche l’ottimo chitarrista,  non abbia talento vocale, solo che, per continuare con i paragoni calcistici, mi sembra un po’ spaesato in mezzo al campo. La voce fa il Pato della situazione: talento immenso, tecnica straordinaria, ma scarsissima intelligenza tattica. Un disco così potente avrebbe meritato urla sguaiate alla Iggy Pop . Giovanni (voce e chitarra), invece, si limita a commentare quanto sta suonando con la sua chitarra ed i suoi compari Steve (basso) e Fede (Batteria).

Un tridente da far impazzire qualunque difesa, solido e quadrato, costruito intorno al fuzz della chitarra.  L’istinto di andare alla ricerca di riferimenti musicali del passato è immediato: i primi a venirmi in mente sono gli Amboy Dukes, uno di quei gruppi che alla fine degli anni sessanta decise di utilizzare la psichedelia in chiave hard e desertica (storica la loro cover di “Baby Please Don’t  Go” e storica la loro splendida “Journey To The Center of The Mind”), soprattutto per quanto riguarda il suono della chitarra. “Cameriere”, la prima traccia, è un riuscitissimo melange di atmosfere space rock  e soluzioni sonore che, per certi versi, arrivano addirittura a ricordare i primissimi Roxy Music, quelli di “Re- Make/ Re- Model” e “Virginia Plain”, per intenderci. Immaginatevi un disco dei Blue Oyster Cult prodotto da Brian Eno. “Universo” inizia con una sincope di voce e chitarra, per poi lasciarsi andare ad un molto ben riuscito delirio cosmico strumentale, un Hard Rock suonato con sapienza, con una coda nel finale che sembra la scia di una qualche allucinata cometa. Con “Non Sarà” l’ambiente sembra raffreddarsi un attimo, un arpeggio di chitarra molto tranquillo, e una ritmica che per certi versi ricorda i Grateful Dead di “St Stephen”.

I riferimenti al passato, in questo disco, sono inevitabili. Lo stesso Giovanni afferma di aver scelto, per il suono del fuzz della sua chitarra, “un suono non troppo moderno, più vicino agli anni ‘70”. E il lavoro, non solo per quanto riguarda la chitarra, ma per la totalità del disco, sembra davvero ben riuscito. Sembra richiamare, infatti, ogni anima dell’universo di quel meraviglioso decennio, a parte l’anima punk rock: dentro ci puoi sentire gli Aamon Duul II, l’inizio de “Il Mattino” rimanda addirittura agli immensi Popol Vuh di Florian Fricke e ai Pink Floyd di “Careful With That Axe Eugene”, per poi partire in quarta e diventare un pezzo colossale, con una ritmica quasi funky, e sonorità teutoniche (teutoniche nel senso che si rifanno al Kraut). I Deadpeach, con “2”, riescono ad allacciarsi alla migliore tradizione psichedelica, senza mai risultare scontati o banali, senza mai suonare ripetitivi o privi di idee. Le parti migliori sono quelle in cui i tre si lasciano andare e danno piena voce a tutto il loro talento, lasciando andare a briglie sciolte la loro musica.  In questo modo, riescono a coinvolgere chi ascolta e a non annoiarlo mai, con un disco molto ben assortito. E’ vero, forse alla voce si potrebbe chiedere di più, ma c’è anche da considerare che, probabilmente, l’intenzione dei tre, e del cantante in particolare, non era quella di fare un album “cantato” e “cantabile”. Se, sulle prime, si può anche rimanere “infastiditi” dalla voce, dopo un ascolto più attento ci si rende conto che, in realtà, è probabilmente messa là più per dare un attimo di tregua ai meravigliosi deliri della chitarra che non per stupire o fare la parte del leone.

Ci sono tre pezzi, la quarta, la quinta traccia e la sesta traccia, che non lasciano alcun dubbio: questi ragazzi ci sanno davvero fare. La chitarra è convincente, solida, suonata divinamente e senza inutili virtuosismi. Non dà, infatti, mai l’idea di perdersi: traccia una strada tortuosissima, per carità, ma nella quale dà prova di sapere sempre esattamente dove andare. Accompagnata, in tutto questo, da una delle sezioni ritmiche più solide dai tempi degli Amboy Dukes. Riuscire, nel 2011, a suonare simili a gente come i Dukes e riuscire ad essere innovativi facendolo, non è senz’altro da tutti. I Deadpeach vi faranno bene. Se siete cresciuti con gente come Can, Aamon Duul, Kollektiv, Amboy Dukes e via discorrendo, i Deadpeach rinfrancheranno il vostro spirito e vi faranno sperare in un futuro migliore.





01.Cameriere

02.Universo

03.Non Sarà

04.Il Mattino

05.Nel Bosco

06.L’ora

07.Le Scarpe Nuove

08.Bombay

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