Tame Impala
Innerspeaker

2010, Modular Recordings
Psychedelic Rock

Recensione di Nicola Gospel Quaggia - Pubblicata in data: 18/02/11

Una cosa è molto importante, qualunque cosa si faccia: il modo in cui ci si presenta agli altri. I Tame Impala, con il loro "Innerspeaker", irrompono sulla scena musicale indipendente regalandoci una boccata di aria fresca, uno scorcio di originalità molto gradito in un’epoca, la nostra, non proprio ricca di originalità e spirito innovativo nella musica rock.

Le undici canzoni di questo disco rappresentano un autentico vademecum della psichedelia in chiave anni 2010. “Lucidity”, ad esempio,  nei suoi quattro minuti e mezzo, riesce a racchiudere tutto ciò che la musica psichedelica dovrebbe essere: ritmo regolare e abbastanza ripetitivo, chitarre e sintetizzatori trionfanti, voce ammiccante e dispersa in un qualche strano liquido. L’effetto vocale e l’andazzo generale del pezzo, sembrano ricordare molto da vicino “Tomorrow Never Knows” dei Beatles, una sorta di Bibbia dell’easy listening psichedelico. Easy listening psichedelico, questa, forse, è la definizione più corretta che posso dare di questo "Innerspeaker". “Solitude is Bliss”, si inserisce a meraviglia in questa definizione. La voce, quasi “svogliata”, guida distrattamente l’ascoltatore in un intricato groviglio di suoni, echi e richiami che vanno a spegnersi e a naufragare in “Jeremy’s Storm”, forse il pezzo più significativo del disco. Il brano parte con una chitarra pizzicata dolcemente per poi prendere sempre più velocità e diventare un autentico orgasmo ritmico, con basso e batteria che spadroneggiano e dettano legge al resto del gruppo, che nel frattempo disegna le sue linee dolci e raffinate, condendo il tutto con i rumori del vento, del mare, e di strani animali marini. Le influenze più evidenti, in questa canzone strumentale, sono quelle di gruppi tedeschi come Neu e Harmonia, l’avanguardia, lo zoccolo duro della musica psichedelica mondiale.

Il disco, nel complesso, è godibile e a tratti anche geniale. Il problema, forse, è che alle volte sembra perdere un po’ di smalto. Mi spiego meglio: nei sei minuti di “Expectation”, ad esempio, i Nostri sembrano essere un po’ troppo compiaciuti ed auto indulgenti, rischiando di annoiare e di tirare il discorso un po’ troppo per le lunghe. Insomma, va bene tutto, va bene che sono bravi, ma non sono certo i Grateful Dead, forse dovrebbero darsi una calmata e cercare di essere più ordinati e di mettere l’ascoltatore a suo agio. Anche perché, quando non strafanno, dimostrano di saper fare un lavoro dannatamente buono. C’è un pezzo, “The Bold Arrow of Time”, che può spiegare più di mille parole quello che intendo dire. Si tratta, per lo più, di un’overdose di suoni suonata con decisione e alla maniera aggressiva degli Aamon Duul II di “Phallus Dei”, con una coda di chitarra acustica e sintetizzatore davvero azzeccata. Peccato che la parte centrale sia resa fiacca da strane ed incomprensibili vocalizzazioni, a mio avviso inutili. Ci sono momenti, in tutto il disco, in cui vorrei che il cantante, per quanto dotato di grandissime qualità e di una voce davvero splendida, lasciasse spazio e voce agli strumenti, che li lasciasse cioè andare dove desiderano andare. A volte la voce sembra far la parte del coperchio sulla pentola: tiene a freno i bollori e i vapori di tutto quello che sta sotto.

Si tratta comunque di un ottimo lavoro che vale la pena di acquistare e di ascoltare più volte, cercando di controllare il più possibile il desiderio, che potrebbe talvolta sopraggiungere, di mandare avanti qualche canzone: la sorpresa è sempre dietro l’angolo, per quanto possano sembrare auto indulgenti ed alle volte perfino noiosi, meritano che si vada in fondo ad ogni canzone con fiducia.



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