Kate Bush
Director's Cut

2011, EMI
Indie

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 23/05/11

Che Kate Bush abbia basato una carriera sul suo isterismo e sulla sua geniale follia è una cosa oramai più che appurata, per cui non ci stupiamo neanche più di tanto se, sullo scorso doppio inciso di inediti ("Aerial" del 2005), troviamo canzoni dedicate al pi-greco, al rumore confortante di lavatrici in funzione e vocalizzi astrusi che vorrebbero richiamare gli uccelli che abitano le foreste. Le premesse che stavano alla base di questo “Director’s Cut” erano altrettanto altisonanti, altrettanto strambe: prendere alcuni brani da “The Sensual World” (1989) e “The Red Shoes” (1993), ri-registrarli là dove era il caso di farlo per conferire loro una nuova veste, maggiormente allineata allo spirito che muove la nostra cantautrice inglese al giorno d'oggi.

Il risultato che abbiamo per le mani è praticamente una versione “alternativa” di “The Red Shoes”, addizionato occasionalmente di “The Sensual World”, neanche troppo ben mixato per far aderire le parti trattate oggi rispetto a quelle presenti sugli incisi originari, e certamente zoppicante nella resa finale, visto che la maggior parte dei brani tradisce, in un certo qual senso, lo spirito originale delle composizioni grazie proprio all’interpretazione meno convincente della Bush (ascoltate “Never Be Mine” come caso emblematico). Per capirci meglio: il riarrangiamento dei vari pezzi segue, grossomodo, il trend dell’artista manifestato sul secondo disco di "Aerials", rendendo il tutto vagamente più folkeggiante a tratti, come le cantautrici che nascono oggi ci insegnano essere di moda.

Ma ciò che è davvero drammatico, in “Director’s Cut”, è lo scoprire come, dietro altisonanti dichiarazioni d’intenti che dovrebbero destare l’interesse del fan più smaliziato della Bush, si nasconda, semplicemente, un album di remix, un disco che, clamorosamente, manca di molto il bersaglio di voler fornire qualcosa di concretamente nuovo, pur basandosi su composizioni già sentite. Per dirla con un esempio pratico: siamo lontani anni luce dalla resa di estrema classe di un Peter Gabriel che, con un disco di cover (“Scratch My Back”), è riuscito a partorire qualcosa di tremendamente significativo grazie a quella sapiente e certosina opera di riarrangiamento che là effettivamente c’era, ma qui, a conti fatti, latita.

La conclusione più che naturale di tutto questo è la constatazione, molto pratica, che si potrebbe desiderare questo inciso solo per dovere di completezza, mossi da spirito di collezionismo, oppure spinti dalla curiosità di sentire dei remix di brani del passato di un’artista fortemente amata. Nel primo caso, lungi da me distogliervi dal nobile obiettivo; se, invece, vi ritrovate nel secondo caso, voglio solo avvertirvi che il risultato di tutto questo lavoro non è affatto felice e che non siamo al disastro completo giusto per il fatto che le composizioni originali erano e rimangono, comunque, brani di classe.

Un’amara conclusione per un disco che, quindi, di straordinario ha solo le sue altisonanti premesse, tutte fatalmente tradite nel miasma dell'autocelebrazione.



01. Flower Of The Mountain
02. The Song Of Solomon
03. Lily
04. Deeper Understanding
05. The Red Shoes
06. This Woman’s Work
07. Moments Of Pleasure
08. Never Be Mine
09. Top Of The City
10. And So Is Love
11. Rubberland Girl

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