Arch Enemy
Khaos Legions

2011, Century Media
Death Metal

Recensione di Lorenzo Brignoli - Pubblicata in data: 14/06/11

Negli ultimi quattro anni, o quasi, sotto il nome Arch Enemy sono comparsi: un DVD, una compilation, una raccolta di canzoni risalenti al periodo con Johan Liiva ri-registrate con Angela Gossow alla voce, alcune ristampe, ma niente di veramente “nuovo”. Questo giustificava quindi una certa attesa verso il nuovo full-length degli svedesi, condita da una piccola speranza che la band, visto che nella sua storia recente ha dimostrato di essere piuttosto restia a cambiamenti, abbia introdotto qualche elemento innovativo nel proprio sound, troppo spesso ancorato a musica sicuramente potente e tecnica, ma poco vario sia tra un album e l’altro che all’interno di uno stesso platter.

Purtroppo “Khaos Legions”, uscito lo scorso 30 maggio in Europa, ha disatteso pienamente queste speranze, dimostrandosi nient’altro che un compitino, apparentemente accattivante, ma che nel complesso lascia ben poche soddisfazioni. Lo ammetto, mi sono avvicinato a questo disco consapevole che gli Arch Enemy non sono, e probabilmente non saranno mai, il gruppo che potrà riportare il death melodico ai fasti di un tempo o dare nuova linfa al genere, e questo nonostante sia perfettamente conscio del fatto che gli svedesi abbiano pubblicato in passato lavori di altissimo livello come “Stigmata” e “Burning Bridges” e possano vantare tra i propri membri un guitar hero come Michael Amott e un batterista del calibro di Daniel Erlandsson.

Tuttavia la lunga pausa compositiva tra il precedente “Rise of the Tyrant” e questo platter mi aveva fatto pensare che i nostri volessero prendersi del tempo per pensare di proporre qualcosa di diverso dalla solita salsa di strofe tiratissime, chorus rallentati e assoli supersonici. Personalmente credo che dopo tutti questi anni sia lecito aspettarsi qualcosa di più di una dimostrazione di tecnica sopraffina confezionata in una produzione pulitissima. Se si ascolta un disco di una delle band di punta della Svezia si vorrebbe sentire qualcosa che trasudi e trasmetta passione, non svogliatezza, si vorrebbe che su quattordici canzoni ce ne sia più della metà di buon livello (specie dopo quattro anni di attesa), non una serie di filler di mestiere. In altre parole si vorrebbe un disco che faccia venir voglia di rischiacciare “play” una volta ascoltato, non qualcosa che si trascina stancamente verso la fine. Insomma, l’impressione che prende forma ascolto dopo ascolto è che i nostri stiano attraversando da anni una fase di scarsa ispirazione e le speranze che si possano risollevare da questa situazione scemano sempre di più.

Oggettivamente, se siete fan accaniti della band e negli ultimi dieci anni vi è andato benissimo il continuo copia/incolla di “Wages of Sin” (ottimo disco, ma che per chi scrive rappresenta anche l’inizio della fine della fase “ispirata” del gruppo), talvolta in salsa “mid-tempo” talvolta in salsa “up-tempo”, è probabile che vi piaccia questo disco e che lo reputiate più che sufficiente, artisticamente parlando però ci troviamo davanti ad un platter che nonostante qualche pezzo più che discreto difficilmente lascerà il segno e che non fa altro che confermare l’inesorabile declino di una band e di un genere una volta tra i più floridi di tutta la scena musicale estrema.



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