Glassjaw
Everything You Ever Wanted To Know About Silence

2000, Roadrunner Records
Postcore

Recensione di Lorenzo Zingaretti - Pubblicata in data: 29/06/11

Nel mondo musicale di oggi, fatto di miriadi di uscite al mese, proliferazioni di generi nuovi (o presunti tali), declino del supporto fisico in favore del più comodo ed economico – ma senza un briciolo di fascino – formato digitale, i gruppi devono buttar fuori in continuazione nuovo materiale per evitare che l’attenzione intorno a loro cali e passino, nel giro di un paio d’anni, da nuova sensazione a emeriti sconosciuti. Inoltre ormai un nuovo disco è la chiave d’accesso al tour, che è il traguardo reale delle band: l’album non è quasi più un fine, ma un mezzo per giustificare le apparizioni live che possono espandere il bacino di ascoltatori. Esistono però delle eccezioni: gruppi che, pur non facendo uscire sul mercato nulla di nuovo, riescono a catalizzare lo stesso le attenzioni della massa e far registrare sold out ai concerti senza il disco fresco di pubblicazione. E’ questo il caso dei qui recensiti Glassjaw, quartetto di Long Island, New York, con all’attivo in circa 14 anni (ufficiali, stando alle release, ma in realtà si sono formati prima) di carriera solo due full-length e alcuni EP, anche se c’è da segnalare un periodo di pausa a metà dello scorso decennio.

Ma qual è il motivo di tanto successo, di questa estrema fiducia da parte dei fan del gruppo, della capacità di essere al centro dell’attenzione e provocare fermento anche in mancanza di nuovo materiale? Presto detto: la causa di tutto va vista nel loro disco d’esordio, uscito nel 2000 e rispondente al nome di “Everything You Ever Wanted To Know About Silence”. Gli anni sono quelli dell’esplosione definitiva dell’alternative/nu metal, e i Glassjaw dimostrano di aver appreso la lezione di questo genere, fungendo quasi da gruppo interstiziale tra questo movimento e quanto poi si sarà ascoltato in futuro. Sotto l’egida della Roadrunner e del produttore Ross Robinson (guarda caso…i nomi Korn, Limp Bizkit e Slipknot vi dicono niente?) esce dunque il primo lavoro della band, come già spiegato un disco che risente parzialmente degli influssi di certo alternative metal, ma riesce a spingersi molto più in là di quanto si sarebbe portati a credere. Eh sì, perché se da lì in avanti si parlerà di post-hardcore sarà proprio grazie ai Glassjaw, che appunto fondono le loro influenze pesanti con una vena melodica molto particolare, distante anni luce dall’uso di ritornelli semplici e, per così dire, commerciali di cui invece è piena la scena musicale odierna. E se si parla di melodia non si può non citare mr. Daryl Palumbo, uno dei cantanti più espressivi e viscerali di tutto il mondo alternative: quando lo si sente cantare, ci si accorge che crede davvero in quello che sta urlando o sussurrando dietro al microfono, e in questo modo non può fare a meno di toccare le corde emozionali di chi ascolta.

Che poi, un disco che parte con due perle come “Pretty Lush” e “Siberian Kiss” non può non far parlare di sé: sono questi i due manifesti di casa Glassjaw, pezzi in cui il gruppo sfodera gli artigli soprattutto nella fase iniziale, per poi esplorare con un gusto melodico sopraffino territori alternative rock, sfornando così un paio di refrain che più efficaci non si può. Si continua su questi binari, tra sfoghi hardcore rabbiosi (“Babe” ne è l’esempio più fulgido) e sapienti dosi di melodia (esempi a caso, la punkeggiante “Ry Ry’s Song” o “Majour”), per incontrare altri pezzi forti – in realtà di filler non se ne sentono, semplicemente ci sono piccoli capolavori alternati a ottimi brani – come “Lovebites and Razorlines” o la titletrack, posta quasi in chiusura. La prima delle due è sullo stile delle opener, con un ritornello da antologia (“I know a girl who sells herself around, and one day, I’m sure, she’ll sign autographs in your town”), ma in generale Palumbo sputa il suo astio contro quella che presumibilmente è una sua ex fidanzata in diversi momenti dell’album; inutile dire che, se ascoltato in un momento particolare, legato ad una qualche complicata situazione sentimentale, il disco diventa un rifugio più significativo della Bibbia per un devoto in crisi mistica. “Everything You Ever Wanted To Know About Silence” invece è la canzone più lunga e complessa del disco, quella che peraltro lascia intravedere qualche sprazzo di ciò che diverranno i Glassjaw nel loro percorso evolutivo: è meno violenta delle altre, al di là di qualche sfogo di Palumbo, che comunque raggiunge il suo apice nel ritornello e nella parte finale, in uno dei frangenti più alti di tutto l’album – e di tutto il post-hardcore, mi verrebbe da dire.

Quindi, si sarà capito, siamo di fronte ad un masterpiece del genere, ma non solo: questo è un disco che ha contribuito a creare il movimento stesso, uno dei primi usciti con questo tipo di sonorità, e che ovviamente ha influenzato tantissimi gruppi – ahinoi, nella quasi totalità dei casi incapaci di replicare o soltanto avvicinarsi alla bellezza stordente dell’esordio targato Glassjaw. Insomma, inutile girarci intorno, compratelo e scoprirete “tutto quel che c’è da sapere sul silenzio”: che, con dischi così, se ne può fare volentieri a meno!





01. Pretty Lush

02. Siberian Kiss

03. When One Eight Becomes Two Zeros

04. Ry Ry's Song

05. Lovebites And Razorlines

06. Hurting And Shoving (She Should Have Let Me Sleep)

07. Majour

08. Her Middle Name Was Boom

09. Piano

10. Babe

11. Everything You Ever Wanted To Know About Silence

12. Motel Of The White Locust

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