Amanda Palmer
Who Killed Amanda Palmer

2008, Roadrunner Records
Indie

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 21/07/11

Chi ha ucciso Amanda ‘Fucking’ Palmer? “Nessuno, si può dire che ha fatto tutto da sola”, questo si può tranquillamente pensare della cantautrice americana, soprattutto vedendone gli ultimi exploit artistici. Ci fu, tuttavia, un tempo in cui tanta sardonica sagacia sarebbe stata tremendamente fuori luogo, un periodo di passaggio che produsse un’autentica gemma di cantautorato femminile, proprio prima che Amanda si disperdesse tra cover con l’ukulele di canzoni dei Radiohead (!) e brani simil pop-r’n’b su quanto orgogliosa fosse del suo rigoglioso cespuglio (!!!).

Oh, a noi critici musicali piace terribilmente la dietrologia, soprattutto quando le circostanze ci danno terribilmente ragione, quindi vediamo quali circostanze hanno portato al primo album solista della Palmer: i The Dresden Dolls, meravigliosa creatura musicale di Amanda Palmer e Brian Viglione, erano ad un punto morto, dopo un debutto folgorante che fece capire al mondo quanto potente potesse essere il punk-cabaret (una commistione tra spirito anarchico nella struttura canzone tipico del punk, ma fatto in modo assai minimale solo con pianoforte e batteria, abbinato ad un’immagine totalmente orientata al cabaret della Belle Époque). Era come se i Dresden Dolls fossero rimasti prigionieri dello schema musicale da loro inventato, in qualche modo persino prigionieri di quella Roadrunner Records che aveva da subito creduto ed investito in loro – avrebbe poi affermato Amanda in seguito - per cui ecco “Yes, Virginia” e “No, Virginia…”, album sì gradevoli, ma assai manieristici, lontani da quello scossone che diede “The Dresden Dolls” nel 2003; la Palmer, evidentemente conscia di questa fase calante, decise di staccarsi un attimo dal suo compagno musicale di sempre e confezionare un’opera solista in cui poter far esplodere tutta la fantasia e l’estro che, evidentemente, non riusciva ad esprimere col nome di Dresden Dolls.

Ironico che, a conti fatti, questo “Who Killed Amanda Palmer” sia a stento un’opera solista, vista la onnipresenza di Ben Folds come perfetto sostituto di Viglione non solo alle percussioni ed altri strumenti, ma anche alla produzione del disco; ancora più ironico, poi, che a dare i natali all’inciso sia stata proprio quella Roadrunner che non sembrava capire le smanie artistiche della nostra cantautrice, ma altrettanto evidente e significativo come il quartetto d’archi che fa a gara col pianoforte su chi sia più incalzante nell’incipit di “Astronaut (A Short History Of Nearly Nothing)” rappresenti da subito quella boccata di ossigeno che era assolutamente necessaria in casa Palmer. E che dire del nervo impazzito che governa la successiva “Runs In The Family”, del violoncello che dona un tono epicamente cinematografico alla giocosa “Blake Says”, del rondò incalzante governato dalla chitarra elettrica di “Guitar Hero” o della ballad in crescendo, con tanto di coro finale, di “Have To Drive”?

Tutti orpelli e barocchismi che non avrebbero trovato posto nei Dresden Dolls, ma che erano assolutamente necessari per far nuovamente svettare la musica di Amanda Palmer sui vertici dell’eccellenza, presentandoci un’artista ancora una volta pienamente ispirata sia per la scrittura delle sue solite, sferzanti liriche, sia nell’interpretazione vocale quanto mai nervosa ed energica. Ci sono anche elementi tipicamente Dresdeniani sul disco, è inevitabile, come l’anima swing che governa, in una festa di ottoni, “Leeds United” – brano che fa braccetto con la gemella “Oasis” - ma anche quell’aria di racconto trasognato che fa capolino nei carillion di “What’s The Use Of Wondr’in”, tipico pezzo da fata madrina disneyiana arricchito dalla flautata voce di Annie Clark come ospite d’onore.

E’ davvero incredibile quanta fantasia e quanta emozione vi attendano su questo disco, il culmine di una carriera musicale presto destinata ad un inevitabile declino, tra manie di onnipotenza artistica che la nostra Amanda crede tutt’ora di possedere, figlie di quell’indipendenza dall’industria discografica che, a conti fatti, ha rappresentato tutto meno che il suo bene (come artista, sia chiaro). Ma se volete scoprire la vera anima di colei che ha portato alla ribalta i Dresden Dolls grazie alla sua personalità ed alle turbolenze del suo universo interiore, direi che avete solo due possibilità: o puntare al primo, omonimo, disco dei The Dresden Dolls, oppure acquistare l’opera oggetto di questo articolo.

Farveli mancare entrambi in collezione è un peccato di cui dovrete chiedere ammenda al dio della Musica, siatene consapevoli… e speriamo che Amanda getti al più presto alle ortiche il suo ukulele, e che smetta di fissare le sue parti intime.

NOTA FINALE: Per gli irriducibili fan di Neil Gaiman, imperdibile la prefazione al disco scritta dal celebre scrittore (nonché compagno di vita della Palmer) sulla back cover dell'edizione in formato digipack dell'inciso.





01. Astronaut (A Short History Of Nearly Nothing) (feat. Zoe Keating)
02. Runs In The Family
03. Ampersand
04. Leeds United
05. Blake Says
06. Strength Through Music
07. Guitar Hero (feat. East Bay Ray)
08. Have To Drive
09. What’s The Use Of Wond’rin’ (feat. Annie Clark)
10. Oasis
11. The Point Of It All
12. Another Year

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