Franco Battiato
Gommalacca

1998, Mercury/Universal
Pop Rock

Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 12/08/11

1998, 20esimo disco in carriera; per un uomo attento ai corsi ed ai moti dell'esistenza come Franco Battiato, il fatto che il ventesimo sigillo in discografia sia un capolavoro di incredibile spessore suona assai poco casuale. Per procedere con ordine nell'analisi di un fulgido diamante in una discografia non meno che splendida quanto vasta e preziosa, è necessario cominciare con alcune circostanze.

Registrato a Milano, con metà Bluvertigo in formazione (Morgan al basso e cori, Marco Pancaldi alle chitarre), “Gommalacca” è un disco che si apre su un suono elettronico e strisciante, mistico e ieratico come quei cori che si agitano sfuggevoli all'interno delle note; subito arrivano degli archi austeramente barocchi a supportare la melodia, ed ecco quindi partire la voce alienata e distorta di Battiato, in un'interpretazione libera da ogni rigore scolastico, il tutto per portarci sull'esplosione di un ritornello puramente rock. Ciò che vi ho appena descritto è il celebre incipit di “Shock In My Town”, e quest'opera discografica non si discosta molto, nel suo insieme, dagli elementi costitutivi che vi ho appena elencato, anime sonore apparentemente inconciliabili ma che si ritrovano in un matrimonio felice sia quando utilizzate per soffici atmosfere acustiche e bohemienne (“La Preda”, con un pianoforte di fulgida cristallinità), sia quando piegate al servizio di un brano umorale dai tempi assai inquieti ed irregolari (“Auto Da Fe'”).

“Gommalacca” non è un disco che funziona per sottrazione, anzi; è, semmai, l'esatto opposto, per cui ecco che troviamo il Tibet lascivamente concupire con le tribali percussioni d'Africa su una nenia di inaudita potenza evocativa (“Il Ballo Del Potere”, che mantiene fede al titolo esortando alla danza come gesto di liberazione), oppure un inno di glorificazione a Maria Callas infervorato da preziosi samples nello sfondo di “Casta Diva”, fino ad arrivare ad un elettronica potentemente oscura a creare atmosfere al limite del gothic (“Il Mantello E La Spiga”). Il tutto, negli effetti pratici, suona come una sublimazione della fase rock del cantautore, uno studio cominciato con il precedente “L'Imboscata” ma che solamente su questo inciso trova piena espressione.

Suona tutto tremendamente complesso, astruso e celebrare – in una parola: Battiato, non è vero? Invece, “Gommalacca” è un'opera in cui tutti gli elementi aulici della musica del Maestro siculo vengono magnificamente stemperati nel corso dei vari brani, tanto che – tolto il racconto in musica estremamente compiaciuto sulla chiusura di “Shakleton”, necessario quanto una firma sul fondo di una missiva - quest'opera discografica rappresenta il punto d'inizio ideale per chi ancora non conosce la musica di Franco Battiato - un cantautore di importanza capitale per il nostro Paese - in quanto inciso estremamente ispirato ed accessibile, disco che, non a caso, ha consolidato un estremo consenso commerciale per il cantautore (affermare che la seconda rinascita commerciale di Battiato nella seconda metà dei ‘90s sia dovuta esclusivamente al boom de “La Cura”, è assai riduttivo).

Impreziosita ancora una volta dalle parole del filosofo e scrittore Manlio Sgalambro, in una felice collaborazione cominciata su “L'Ombrello E La Macchina Da Cucire” e che prosegue verso versi splendidamente precisi nel dettagliare magnifici paesaggi esistenziali (“Quello Che Fu”, dove con parole semplici si dipinge un quadro di estrema intensità emotiva, o la franchezza di “Auto Da Fe’”), quanto curiosi panorami dadaisti (l’enigma perpetuo che è “Shock In My Town”, non privo di drammatica giocosità), “Gommalacca” è decisamente un'opera di estremo fascino, una pietra miliare nella storia della musica italiana, in quanto reca nel suo DNA tratti estremamente esotici ed affascinanti, tuttavia non usati in modo alienante ma, al contrario, estremamente emozionale, un concentrato di melodia solo all'apparenza lineare, poiché se concederete all'inciso la dovuta attenzione, scoprirete un orizzonte sonoro incredibilmente vasto, di quelli che tendono verso l'infinito.

Ed ecco, quindi, che le parole del futurista Tiziano Vignero riportate in chiusura d'opera trovano come per magia estremo senso: “I suoni di Gommalacca sono suoni di superficie, di striscio...solo i cantanti e gli indovini li praticano, i fortunati li ascoltano”.

Grazie infinte dunque, Maestro, per averci concesso questa fortuna. Di cuore.



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