The Devil Wears Prada
Dead Throne

2011, Roadrunner Records
Metalcore

Recensione di Lorenzo Zingaretti - Pubblicata in data: 17/10/11

Cosa succede quando un gruppo metalcore americano viene affiancato nella produzione del suo nuovo album dall’onnipresente Adam Dutkiewicz (per chi non ne avesse mai sentito parlare – strano, se state leggendo questa recensione – chitarrista dei Killswitch Engage, nonché prezzemolino del mondo metalcore statunitense) e supportato, sotto forma di ospite alla voce in uno dei brani, da un altro grande nome del genere quale Tim Lambesis degli As I Lay Dying? Accade che il gruppo in questione si lascia influenzare in maniera decisiva dal “vecchio” metalcore, quello appunto delle band di provenienza dei due personaggi citati sopra, e abbandona la via seguita fino al precedente full length, intitolato “With Roots Above And Branches Below”, che risentiva invece parecchio dello stile tanto caro agli Underoath. A dirla tutta il gruppo in questione, che risponde al nome di The Devil Wears Prada, aveva già iniziato un cammino teso verso un sound più pesante e prettamente metal già con l’EP uscito nel 2010, “Zombie”, e con l’ultimo arrivato, “Dead Throne”, ha deciso di approfondire ulteriormente il discorso, facendosi aiutare appunto da chi ha più esperienza in questo campo.

Alla luce di questa introduzione, chi non conosce la band può essere portato a pensare che i ragazzi di Dayton, Ohio, pecchino clamorosamente di fantasia in campo musicale: il passaggio dal quasi scimmiottare un gruppo (nel caso in questione, i già nominati Underoath), all’imitarne altri (gli As I Lay Dying del loro prezioso guest, ma anche i Bleeding Through), non è certo sintomo di originalità. La cosa preoccupante è che questo pensiero potrebbe essere benissimo condiviso anche da chi invece ha la discografia completa dei The Devil Wears Prada, perché è innegabile che con la loro proposta non abbiano inventato niente di nuovo, ma stiano più semplicemente suonando il genere che apprezzano di più. Di sicuro però è limitante parlare di un gruppo in questi termini, perché in ogni caso – al di là dell’innovazione, purtroppo sempre più difficile da trovare tra le nuove leve – quello che ci interessa è capire se il disco sia meritevole di essere ascoltato, quantomeno dai fan del genere.

L’album, che si snoda attraverso tredici pezzi, presenta composizioni piuttosto brevi (la maggior parte dei brani supera non di molto i tre minuti), fattore che alleggerisce notevolmente l’ascolto, dato che comunque si tratta di un disco monolitico, in cui gli strumenti pestano dall’inizio alla fine con pochissimi momenti più leggeri (escludendo la strumentale “Kansas”). Persino nei frangenti nei quali le clean vocals la fanno da padrone, la base musicale non accenna a diminuire la potenza, anzi: più di una volta capita di ascoltare un ritornello con voce pulita accompagnato da scariche di doppia cassa. Si era detto delle forti influenze di alcuni tra i maggiori esponenti del metalcore, ed infatti l’aura di gruppi come i citati Bleeding Through e, per l’ennesima volta qualora non fosse chiaro, As I Lay Dying, è più che percepibile. I primi si insinuano nei granitici riff delle strofe e dei breakdown, ma soprattutto in tutte quelle fasi in cui gli inserimenti di tastiera danno quel tocco quasi decadente ai brani, ricordando da vicino certe composizioni di “Declaration” del gruppo di Schieppati. Il sound della band di Lambesis invece fa capolino nei ritornelli, accompagnati spesso da melodie chitarristiche che sfiorano il melodic death tanto caro a In Flames e Soilwork, e la riprova è palese in un episodio quale il primo singolo “Born To Lose” che strutturalmente e come intenzione ricorda davvero da vicino gli autori di “Shadows Are Security”.

Il disco in sé raggiunge comunque la piena sufficienza poiché è godibile, può soddisfare i fruitori del metalcore melodico e la produzione è decisamente all’altezza, con suoni potenti e ben definiti. Purtroppo però si torna sempre lì, al discorso relativo all’originalità: “Dead Throne” non aggiunge e non toglie nulla alla scena, rischiando quindi di passare inosservato tra altre uscite simili, all’ombra dei grandi nomi e perso nel marasma dei cosiddetti followers. Certo, poi i The Devil Wears Prada sono liberissimi di cantare, in chiusura dell’album, “We will not be forgotten”; ma al posto loro, non sarei così sicuro di poter evitare il dimenticatoio.





01. Dead Throne

02. Untidaled

03. Mammoth

04. Vengeance

05. R.I.T.

06. My Questions

07. Kansas

08. Born to Lose

09. Forever Decay

10. Chicago

11. Constance

12. Pretenders

13. Holdfast 

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