Guns N' Roses
Chinese Democracy

2008, Geffen Records
Hard Rock

Recensione di Marco Somma - Pubblicata in data: 18/10/11

Potrà mai una sola recensione minare seriamente la sua vita sociale dell’autore? Probabilmente si, me ne rendo conto mettendosi alla tastiera con la ferma intenzione di passare al pettine il mito e miraggio di "Chinese Democracy". D’altro canto ogni battaglia vuole le sue vittime. Mettersi a giudicare un lavoro come questo, pesandone il valore in rapporto al mondo a cui appartiene e a quanto questo mondo ha dato negli ultimi vent’anni… Beh se non è una battaglia questa! Messo in chiaro che alla fine di tutto questo ci saranno dei feriti, non resta che prendere il coraggio a due mani. Dunque se vedere un po’ di sangue non vi spaventa, siete invitati a proseguire nella lettura.

GLI ANNI BUI

Della storia dei Guns N' Roses non c’è alcun bisogno di parlare. Non esiste appassionato di rock al mondo che non la conosca a mena dito, glorie e cadute sono note a tutti noi come e anche più delle storie della Bibbia. Dopo aver messo a ferro e fuoco mezzo mondo e aver riscritto la storia del rock con soli tre album di inediti all’attivo, caos e disordine hanno la meglio su una delle più incredibili band live di tutti i tempi. Uno dopo l’altro i membri “storici” lasciano la formazione e, già nel lontano 1996, a testimonianza di quanto è stato, non ci rimane che la cover, per altro eccezionale, di “Symphaty For The Devil”, incisa per la colona sonora del film “Intervista Col Vampiro”.

Due anni più tardi con una line-up che più provvisoria non si potrebbe (Dave Navarro e Robin Finck!?), Axl Rose da alle stampe il singolo “Oh My God”, di nuovo partorito per una colonna sonora, questa volta dell’action-horror “Giorni Contati”. Lo stile è quasi irriconoscibile, della vena country non c’è più traccia, i suoni hanno un’impronta industrial e il piglio aggressivo è da pezzo nu-metal. Una libertà creativa che avrebbe potuto apparire profetica se qualcuno avesse dato maggior peso a quel breve, singolo pezzo. Ancora due anni e il mito della democrazia cinese ha inizio.

TRA MITO E REALTÀ

Messa da parte l’ansia dei fan di poter godere nuovamente del genio e della sregolatezza di Mr. Rose, le leggende su questo disco sono prevalentemente legate ai numeri. Prima di tutto gli anni d’attesa. Quindici anni di lavorazione per un totale di 28 pezzi, di cui solo 14 inseriti poi nel disco. Circa 50 musicisti, di cui almeno una decina di volti da prima pagina, coinvolti nel progetto, 11 anni di tour di sostegno, il tutto per un costo totale di circa 14 milioni di dollari. Ancora non vi basta? Disco di platino ad una settimana dall’uscita, 500.000 copie vendute solo negli stati uniti nelle prime due settimane e 5 milioni nel resto del mondo nel medesimo lasso di tempo. Ma a volte i media si fanno prendere la mano e i fan non chiedono di meglio che attribuire record ai loro beniamini. Si comincia a parlarne nel 2000. La prima data di uscita supposta, badate bene non dichiarata, lo vorrebbe nei negozi nel 2002, ma il disco è ancora ben lontano dal completamento. Nel 2004 finalmente una data viene ufficializzata… Aprile 2006! “Chinese Democracy” vedrà la luce nel 2008. Non esattamente quindici anni dopo. Ecco cosi sfatato il mito principale. In un mercato che pretende un’uscita puntuale ogni due anni e videoclip di sostegno per tenere viva l’immagine, Rose sceglie di farsi invece gli affari propri, dandosi tutto il tempo di far uscire il disco solo quando pienamente soddisfatto e promuovendo la band alla vecchia maniera, vale a dire portando in giro la sua musica. Scelta commercialmente discutibile forse, ma d’altro canto le uniche due cifre sicure nell’analisi del mito rimangono solo quelle delle vendite e della durata del tour. Tutto il resto è solo rumore.

PALLOTTOLE CINESI

Come abbiamo visto il colpo è stato preparato da lungo tempo; prima che venga sparato, tanto Rose, quanto la Geffen, fanno tutto quel che è in loro potere per essere certi di centrare il bersaglio. Viene siglato un accordo con la Best Buy per un esclusiva per le vendite negli Stati Uniti e il colosso Dr. Pepper si elegge a sponsor ufficiale dell’evento. Finalmente il 21 ottobre 2008 “Chinese Democracy” vede la luce. Il volume di vendite in preordine (vale a dire a scatola chiusa) è impressionante, il colpo è partito e lo sparo si è sicuramente sentito in tutto il mondo.

L'UTOPIA DELLA DEMOCRAZIA CINESE

Utopia:

1. In campo filosofico, disegno di una società perfetta, proiettata in una dimensione spazio-temporale indefinita, nella quale gli uomini dovrebbero poter realizzare una convivenza del tutto felice.

2. Nel linguaggio corrente, aspirazione o speranza generosa ma spesso irrealizzabile.

Veniamo cosi al disco, liberi da ogni preconcetto (nei limiti del possibile) e andati oltre le leggende metropolitane, quello che rimangono sono i solchi di un disco che sembrava, e alla fine si conferma, come un’utopia. “Chinese Democracy” non suona neppure lontanamente come un vecchio disco dei Guns. La vena un po’ punk che ne costituiva la radice selvaggia si è dissolta con gli anni, insieme agli eccessi della band e al basso di Duff, lo spirito un po’ blues, un po’ country che aleggiava sugli  assoli puro rock di Slash, è stato definitivamente esorcizzato dal disincanto del nuovo millennio. Cosa rimane dunque delle vecchie sonorità? A dirla tutta rimane ben poco.

La voce del vecchio Axl, contrariamente a quanto temuto e sentito in alcune registrazioni dei primi 2000, è ancora piena di tutte le armoniche ed anzi, dopo un numero infinito di terapie di recupero e chissà quali e quanti studi, il Nostro sembra essersi spinto ancora più in là. La voce dei GnR è dunque ancora la stessa, ma ad accompagnarla c’è tutta un’altra band. Molti di voi penseranno che il cambio di elementi sia notizia vecchia e ritrita, ma qui non si tratta soltanto di volti, si tratta di stili e personalità. I nuovi venuti (quelli rimasti alla fine si intende) Tommy Stinson, Richard Fortus, Ron "Bumblefoot" Thal, DJ Ashba, per citare solo i più “caratterizzanti”, si sono trovati con quella che probabilmente è la più scomoda eredità a memoria di rock. Messi da parte sterili confronti sul livello tecnico (dai quali le vecchie glorie non ne uscirebbero comunque granché bene), tutto si risolve in questioni di stile e personalità. La nuova band non prova neppure a scimmiottare quella vecchia. I molti anni trascorsi in ricerca e sviluppo hanno permesso ai nuovi venuti di presentarsi per quello che sono. Succede cosi che il buon (?) Axl possa tornare sulla breccia con un esercito tutto da scoprire, le cui armi sono affilate sulle pietre miliari dell’industrial, del funky e delle declinazioni più sperimentali del metal.

Voce a parte l’unica cosa che rimane invariata nella formula è solo il cuore e l’intenzione. Ma è davvero un male? Negli ultimi vent’anni alcune delle band più blasonate del settore ci hanno regalato dischi copia carbone a non finire, abbiamo riascoltato lo stesso platter dei Bon Jovi in dieci salse diverse, in virtù dell’affetto più che del vero apprezzamento. Non parliamo poi di gente come Aerosmith, Motorhead, Megadeth o signori assoluti del fenomeno gli inossidabili (?) AC/DC. Siete stati avvisati, qualche testa sarebbe caduta ed ecco arrivato il momento di sentirle rotolare. Nessuno sano di mente potrebbe mai mettere in dubbio la validità dal punto di vista delle vendite di operazioni come “Black Ice” o “Endgame”, ma ne sentivamo davvero il bisogno? Hanno aggiunto qualcosa a quanto già fatto dai paladini del rock? A volte bisogna avere il coraggio di fermarsi, tirarsi fuori dalla corsa o sperimentare nuove direzioni. Non farà bene al conto in banca, ma con un po’ di fortuna potrebbe giovare all’arte. È per quest’ultima che questa gente ha cominciato, sotto sotto ne siamo tutti convinti o ci piace pensarlo. “Welcome to the Jungle” e “Use your Illusion” sono già stati scritti, è ora di passare ad altro e visto il gap temporale è comprensibile che si tratti di qualcosa di completamente diverso. Certo questo significa che potrebbe non piacervi affatto.

Oggi come all’ora i Guns danzano al ritmo di una decade di decadenza, ma lo fanno su una danza di tutt’altro genere, celebrano l’inizio di un nuovo millennio, cristallizzando l’istante in cui le memorie di ciò che era il mondo sono ancora distinguibili nei ruderi della vecchia Los Angeles. Chiunque abbia conosciuto la vecchia band al momento della sua comparsa, facendo un piccolo sforzo di memoria, ricorderà come questa incarnasse una quantità di contaminazioni difficili da enumerare. Con l’uscita dei due “Use your Illusion” il fenomeno si faceva ancora più marcato. Rock, punk, metal, country si alternavano in quei full senza soluzione di causa fino a primi vagini ti Nu-metal nella delirante “My World”. L’America del ghetto, i figli illegittimi della società wasp e la tradizione del vecchio west, sembravano doversi contendere la scena sul palco. Il risultato a volte era poco più che caos, altre volte ha partorito capolavori come “Civil War” o “Welcome To The Jungle”. A due decenni da tutto ciò, l’intenzione, nella sua accezione musicale, è rimasta immutata, la mente pensante è ancora la stessa e questo appare evidente ed innegabile fin dalle prime note. Quello che è cambiato sono le fonti di ispirazione e le influenze che facevano un po’ da marchio di fabbrica.

Tra questi solchi si respira l’aria della vecchia Las Vegas. Rimpiangendo tempi in cui la criminalità organizzata, figlia di immigrazioni ancora più lontane nel tempo, poteva stringere la mano al crooner più famoso, elegante ed acclamato della storia e riconoscendo l’una negli occhi dell’altro qualcosa che li accomunava. Traccia dopo traccia la vecchia Las Vegas diviene icona, amara, corrotta e malinconica, attaccata dalle culture d’oltre oceano che ad ogni folata di sabbia finiscono con il seppellire sempre più in profondità luci ed ombre dell’America che fu. Quello messo in musica dai nuovi Guns Nn’ Roses è il mondo profetizzato dai romanzi di Gibson. L’ineluttabile destino di una democrazia esportata con la forza da una fetta di mondo che nel frattempo viene invasa dalla più potente arma della finanza, di cui nel frattempo ha perso il controllo. Il disco dà voce alla frustrazione e alla volontà dell’uomo che si risveglia bruscamente dal sogno americano, ma desidera ancora sognare, amare e fare grandi progetti per il futuro. Orfani di un’utopia, i sopravvissuti del nuovo millennio lottano per conservare quanto di buono o solo affettivo sono riusciti a salvare.

In conclusione “Chinese Democracy” rimane un’utopia. L’utopia trattata nel disco e quella di chi sperava di trovarci i suoni di una volta. Una volta di più mi trovo a scegliere di offrire una guida all’ascolto, preferendola ad una mera descrizione dei brani, nella speranza di rendere più facile l’accostarsi ad un’opera che senza dubbio alcuno merita d’essere ascoltata con attenzione e con un po’ di coraggio, disincanto, e considerati i contenuti pelo sullo stomaco, amata.

Popolarità a parte, i nuovi Guns hanno ben poco da invidiare a chi li ha preceduti. Questa volta però non ci sono videoclip trasmessi a ripetizione in tv o sulla rete a lavare il cervello del pubblico. C’è solo la musica, assolutamente ben composta, eseguita ed orchestrata da musicisti di altissima classe. Impossibile dire a che genere appartenga di preciso ma di qualsiasi cosa si tratti vale di sicuro tutto il lavoro che vi è stato riversato. Se cercate i vecchi Guns lasciate perdere, se rivolete i tempi andati rassegnatevi. Se amate davvero la musica, ascoltate questo disco.



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