Tim Buckley
Starsailor

1970, Straight Records
Avantgarde

Recensione di Alberto Battaglia - Pubblicata in data: 03/12/11

Senza mai segnare un'epoca, senza mai diventare una bandiera delle grandi masse, Tim Buckley fu una cosa molto più semplice e decisamente più significativa: un cantante inarrivabile. La sua voce è uno strumento che si propaga diretto dall'anima senza alcuna discontinuità, certe sue composizioni sono testamenti emotivi di una tale intensità romantica che lascia semplicemente meravigliati, la sua sperimentazione è fra le più ambiziose del cantautorato. Le capacità vocali di Tim Buckley assurgono al grado del puro virtuosismo, in alcune circostanze è possibile notare come le composizioni più sperimentali siano percorse da vertiginosi saliscendi vocali padroneggiati con la più controllata destrezza.  Tuttavia l'attenzione generale su questo artista fu solo postuma. Forse il motivo di questa incomprensione oggi ci interessa relativamente, ma quel che è certo è che durante l'epoca dei Dylan, dei Donovan, dei Cohen, non meno di questi Tim Buckley avrebbe meritato di condividerne le glorie e il plauso.

PRIMA DI "STARSAILOR"

Buckley comincia la sua carriera registrando a diciannove anni il suo debutto dichiarando di ispirarsi a Bob Dylan, ma pur nell' acerbo e giovane spirito del primo disco è difficile collocare i due cantautori su una linea di figliazione. Rispetto alle pretese di vate del primo Dylan, il nostro Buckley appare più come un'anima delicata e solitaria. Gli domandarono in uno show televisivo se la sua intenzione fosse passare messaggi tramite la sua musica, poichè ne era anche l'autore, la risposta fu: "Messaggi? Io lo faccio per divertirmi!". Nel corso dei primi due album - specie in "Goodbye And Hello" del 1967 - il giovane cantautore raggiunge alcune delle vette più alte raggiungiungibili dal binomio chitarra-voce coniugato a tenere malinconie; restano emblematiche di quella fase delicata e bucolica "Once I Was" e "Morning Glory". Gli arrangiamenti si fanno man mano più raffinati  ed emerge una sempre più l'influenza Jazz nella stesura dei pezzi. I successivi dischi "Happy Sad" (1968) e "Blue Afternoon" (1969) aprono all'artista scenari sempre più dilatati in cui virtuosismo e attitudini melodiche rompono i limiti della canzone tradizionale. Il brio incontenibile della jam session "Gypsy Woman" è la prova della caratura tecnica del cantante, l'afflato di "Sing A Song for You" la prova della sua sublime ispirazione. Con l'album "Lorca", invece, Tim Buckley inizia a esplorare lo sperimentalismo psichedelico perdendo ogni coordinata con le convenzioni, vagando per libera associazione d'idee in un inedito registro che rimescola stili e produce una sorta di canto a stile libero. La sintesi di tutte queste esperienze troverà la compiutezza nel capolavoro "Starsailor".

"STARSAILOR"

Astrale fin dal nome, "Starsailor" trova il suo filo conduttore nella sensazione di scoperta dell'ignoto e non certo nell'omogeneità dello stile. Qui troviamo sia il jazz sia il folk, ma anche altri elementi meno esplorati in precedenza nella carriera del cantante. Il primo impatto infatti può sembrare così incorente da confondere e lasciare spaesati: le canzoni non hanno ritornelli, spaziano su temi armonicamente e tecnicamente lontani da una semplice canzone d'autore. Il cantato cerca soluzioni spericolate, talvolta urlate, buffe, imprevedibili, rivoluzionando il "bel canto" con cui Buckley incantava nei primi dischi. Vi sono soprattutto le allucinazioni psichedeliche dietro questa serie di canzoni sbalorditive e disorientanti: spesso l'impressione è quella di essersi perduti in una pura divagazione mentale.

Il pezzo che apre il viaggio interstellare è "Come Here Woman". L'introduzione ricorda un po' la psichedelia del primo disco dei Pink Floyd, con le chitarre che oscillano su note ondeggianti e spaziali. Il tema iniziale intona un canto con aria melodrammatica, e poi via, parte il ritmo e la canzone diventa una sorta di trip su ritmiche jazzanti. "I Woke Up" gioca con lo swing per trasformarlo in una sbruffonata immersa in echi e riverberi, come se fosse eseguito da un grammofono vagante per la galassia. Sulla stessa falsariga ascolteremo anche "Jungle Fire", salvo poi soprenderci a metà esecuzione divenendo un baccanale ritmico popolato di voci lontane che attraversano le cuffie come automobili in passaggio mentre Buckley arriva a imitare il "grido di battaglia" di Tarzan. Arriva poi il funk-rock di "Monterey", nella quale un riff ripetitivo costituisce la base per un ottovolante vocale popolato di ogni genere di effetto espressivo (urla scimmiesche, ululati, modulazioni dissennate), il risultato tribale che ne esce fuori potrebbe sbiancare James Brown. La sensazione di abbandono più allucinante viene sperimantata ascoltando la title-track, laddove la voce del cantante viene registrata più e più volte mentre emette lamenti su lamenti che compongono il suono delle profondità della mente. L'ispirazione sembra provenire dal "Requiem" del compositore contemporaneo Gyorgy Ligeti, che presumibilmente Buckley aveva conosciuto nella colonna sonora di "2001: Odissea nello Spazio" (1968): infatti sembra davvero una traduzione fedele di quelle atmosfere ultraterrene, evocate nella versione originale da coro e orchestra sinfonica. L'esito di questo brano suona altrettanto avanguardistico: un flusso spazzato dalla velocità, una nave in caduta libera e infinita.

"Starsailor" contiene anche un pezz scritto tre anni prima, che all'interno del disco testimonia il punto d'arrivo formale ed emotivo della profusione romantica di Buckley: un autentico dono divino. "Song to the Siren" è un canto esalato ai confini del mondo, all'interno di una visone onirica nella quale la sirena che attende fatalmente rappresenta la ricerca di un dolce rifugio in cui lasciar affondare la nave e abbandonarsi. Suonano solo gli strumenti funzionali a quest'atmosfera: poche note arpeggiate su una chitarra dilatata dagli echi, i cori sirenici in lontananza e la romanza vocale del protagonista. La melodia e l'interpretazione sono  tutt'uno le parole scritte dal poeta Larry Beckett, il tutto acquisisce la purezza formale dei cristalli.

"Long afloat on shipless oceans
I did all my best to smile
'Til your singing eyes and fingers
Drew me loving to your isle
And you sang
Sail to me, Sail to me
Let me enfold you
Here I am, Here I am
Waiting to hold you
"

La vera magia è del brano, però, abita nel calore che Tim Buckley riesce a dare ad ogni singola nota; non per niente la stessa melodia nelle mani di Pat Boone (che la registrò l'anno prima) suona solo come una filastrocca insopportabile.

Dire che "Starsailor" sia un punto d'arrivo o un apice forse limiterebbe a nove canzoni un contributo artistico che è fondamentale ben oltre la durata di un solo album. Tuttavia è attraverso questi pezzi che conosciamo il lato più innovativo (e per questo non certo il più "facile") del cantante di Washington. Le acrobazie e le suggestioni qui soppiantano in gran parte la compiutezza degli idilli cantautorali per mettere l'ascoltatore a bordo di una nave senza rotta, ma che dirige la prua diritta verso il cielo.



01. Come Here Woman
02. I Woke Up
03. Monterey
04. Moulin Rouge
05. Song To The Siren
06. Jungle Fire
07. Starsailor
08. The Healing Festival
09. Down By The Borderline

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