Tra le tantissime reunion che hanno sconquassato le circoscrizioni del pianeta musica, non avrei mai pensato di dovervi parlare di quella dei ritrovati It Bites, “discograficamente” morti nel millenovecentonovantuno e riconciliati coi loro fan diciassette anni dopo l’inequivocabile “Thank You And Goodnight”. Suggeriamo l’ascolto del reunion-live “When The Lights Go Down” pubblicato l’anno scorso, ma il piatto forte ha un titolo e un sapore del tutto diverso: The Tall Ships.
Gli It Bites sono John Mitchell degli Arena (voce e chitarra), Lee Pomerov (basso) e i due leader John Beck (tastiere) e Bob dal ton (batteria), tutti virtuosi dello strumento al servizio della melodia.
Prog rock, pop e fusion nel DNA del gruppo, ma evidente è la ritrovata ispirazione per una lunga serie di brani dotati di elegante romanticismo (Ghosts) e di nostalgia controllata (Playground). Il bilanciamento di tecnicismo e melodia acconsentono a un indispensabile dinamismo, il disco risulta fresco e incisivo anche se la carne al fuoco, a conti fatti, è troppa. Strutture opulente che a lungo andare intaccano la concentrazione, e se è vero che passerete agevolmente le varie Oh My God, The Tall Ships, The Wind That Shaker The Barley, non è altrettanto scontato il trionfo degli episodi più intimisti (e più pesanti) relegati in fondo. Si tratta pur sempre di un ensemble che compone con gran senso del gusto, protetto e promosso da una di quelle etichette, Inside Out Music, che difficilmente sbaglia un colpo: la voglia di scostarsi dall’ovvietà prevarica l’istinto del music business e gli It Bites non vogliono accontentarsi di soli tre accordi per alleggerire o semplificare un giro di chitarra acustica.
Un lavoro pragmatico e un’autoanalisi centrata dopo diciassette anni. Ribadiamo la sensazione di un disco che ha alla base un solido supporto tecnico e quel pizzico di fantasia che ai grandi non manca mai. Rientro col botto.
Gli It Bites sono John Mitchell degli Arena (voce e chitarra), Lee Pomerov (basso) e i due leader John Beck (tastiere) e Bob dal ton (batteria), tutti virtuosi dello strumento al servizio della melodia.
Prog rock, pop e fusion nel DNA del gruppo, ma evidente è la ritrovata ispirazione per una lunga serie di brani dotati di elegante romanticismo (Ghosts) e di nostalgia controllata (Playground). Il bilanciamento di tecnicismo e melodia acconsentono a un indispensabile dinamismo, il disco risulta fresco e incisivo anche se la carne al fuoco, a conti fatti, è troppa. Strutture opulente che a lungo andare intaccano la concentrazione, e se è vero che passerete agevolmente le varie Oh My God, The Tall Ships, The Wind That Shaker The Barley, non è altrettanto scontato il trionfo degli episodi più intimisti (e più pesanti) relegati in fondo. Si tratta pur sempre di un ensemble che compone con gran senso del gusto, protetto e promosso da una di quelle etichette, Inside Out Music, che difficilmente sbaglia un colpo: la voglia di scostarsi dall’ovvietà prevarica l’istinto del music business e gli It Bites non vogliono accontentarsi di soli tre accordi per alleggerire o semplificare un giro di chitarra acustica.
Un lavoro pragmatico e un’autoanalisi centrata dopo diciassette anni. Ribadiamo la sensazione di un disco che ha alla base un solido supporto tecnico e quel pizzico di fantasia che ai grandi non manca mai. Rientro col botto.