Europe
The Final Countdown

1986, Epic Records
Hard Rock

Recensione di Marco Somma - Pubblicata in data: 31/12/11

La dietrologia uccide la poesia, si sa, motivo per cui ci guarderemo bene dal metterci a vivisezionare un simile pezzo di storia pentagramma per pentagramma. Quella di “The Final Countdown” è la storia di un successo annunciato, di un LP destinato a divenire pietra miliare, una di quelle ricette alchemiche uniche ed irripetibili capaciti di trasformare il piombo in oro.

“The Final Countdown” è il terzo disco di una formazione che ha in principio faticato molto a trovare qualcuno che credesse davvero in loro; a partire dagli stessi membri della band. Chi come loro nasce e cresce nella Svezia dei primi anni Ottanta ha ben pochi motivi per pensare di avere un futuro nel panorama rock internazionale. Prima ancora di adottare il moniker Europe, la band si produce in un paio di demo con il nome Force. I demo, per quanto buoni, non sembrano persuadere del tutto la band, sono in troppi fermamente convinti che il mondo, e per prima la Svezia, non siano interessati ad un gruppo metal che canta in inglese proveniente da quei freddi lidi. Eppure qualcuno disposto a dar loro il giusto credito forse c’è.

DIETRO AD OGNI GRANDE UOMO…

Febbraio 1982, Thomas Erdtman prima manager della CBS, poi della Hot Records, promuove il concorso Rock SM (Swedish rock championship). Si tratta di una sorta di X Factor svedese, strutturato in modo per altro non troppo dissimile dall’ultima edizione del nostro reality. L’unica cosa a fare davvero la differenza è il genere di musica che va per la maggiore. Lo scopo del concorso, esattamente come per il nostrano fattore X, è quello di trovare una macchina da soldi, la nuova pop star costruita ad arte per conquistare le classifiche. Neppure lo stesso Erdtman poteva però immaginare cosa si sarebbe trovato tra le mani!

Gli allora (ancora) Force, come si è detto, non sono però affatto convinti delle proprie potenzialità. I loro demo sono stati sistematicamente snobbati dalle etichette, nel frattempo un piccolo ma importante cambiamento nella formazione ha posto però le basi per il successo. Olsson e Norum, rispettivamente bassista e chitarrista, capiscono di aver bisogno di un cantante capace di lasciare il segno. La scelta ricade su Joakim Larsson, giovane amico di Norum e all’epoca bassista di una band di amici. Larsson ha una voce straordinaria, si muove tra le tessiture di un soprano con naturalezza eccezionale, a questo si fonde una timbratura limpida, insomma una vera e propria voce da usignolo. Larsson, con il suo bel faccino e la sua ugola potrebbe bastare, ma il futuro adone biondo crinito (al momento è un brunetto soprappeso) ha però anche un’altra dote nascosta: la fidanzata! Anita Katila prima convince i quattro membri della band ha registrare un altro demo, poi provvede a spedirlo ai giudici del Rock SM.

DA METALLO GREZZO A METALLO NOBILE

Certe trasformazioni sono scritte nel destino. I Force si internazionalizzano e diventano gli Europe, Joakim Larsson si schiarisce i capelli, perde qualche chilo e diventa Joey Tempest e una piccola band hard rock diviene un fenomeno mediatico. La vittoria ai Rock SM è assoluta. Erdtman nonostante tutto conserva qualche perplessità e propone ai ragazzi di tagliarsi i capelli e rendere più pop il loro sound. Fortunatamente Norum rifiuta e decide di proseguire per la propria strada. Quella di Norum si rivela la scelta migliore. Nella produzione dei due dischi che seguono alla vittoria del concorso, il piglio heavy tipico della band si sposa con le regole produttive dell’epoca.

La tendenza nella produzione dei dischi hard rock è quella di preferire i suoni più morbidi, vicini a quelli pop, ai suoni più ruvidi del metal. Le chitarre soliste si concentrano su assoli estremamente melodici e le ritmiche soccombono immancabilmente al suono delle tastiere. Se tale soluzione alchemica sia davvero da considerarsi nobile è cosa del tutto soggettiva, quel che è certo è che il risultato è uno dei prodotti più “smerciati” degli ultimi trent’anni. “The Final Countdown” è lo zero assoluto della formula.

Sono in molti a considerare “The Final Countdown” una svolta nella produzione della band, ma è sufficiente ascoltare con una minima attenzione i due lavori precedenti per rendersi conto che si tratta in realtà di una piccola ulteriore evoluzione nella medesima direzione intrapresa fin dal primo LP. Certamente dosi ed ingredienti sono stati perfezionati, ma quello che fa davvero la differenza è l’ispirazione. Quasi ogni singola traccia avrebbe potuto essere un singolo scala classifiche, ma la title track ha una marcia in più. Inutile cercare di descriverla. Le probabilità che ci sia qualcuno che ancora non l’ha sentita sono praticamente nulle. Forse lo stesso vale anche per il secondo singolo estratto “Rock The Night”, la cui paternità andrebbe in verità attribuita al solo frontman, che all’epoca ne aveva già registrato una versione in cui solo le pelli non erano opera sua. La ballad “Carrie” fu all’epoca colonna sonora di una quantità inimmaginabile di “incontri” al centro pista, ma congedarla come una delle tante melense composizioni del periodo sarebbe colpevole superficialità. “Carrie” è un piccolo gioiello reso assolutamente unico dalla performance vocale di Tempest.

Questi gli estratti che fecero la storia e seppero poi rimanervi, ma “The Final Countdown” era ed è uno scrigno ricco anche di altri tesori che varrebbe la pena riscoprire a partire dalla comunque piuttosto famosa “Cherokee”. Il pezzo fu una delle tante cause di ritardo nella pubblicazione del disco. Seppure il lotto fosse più che sufficiente a soddisfare il palato del pubblico, Tempest era cosi convinto della validità di questa song ispirata ai nativi americani da insistere perché gli venisse dato ancora un po’ di tempo per finirla. “The Final Countdown” richiese di fatto il doppio del tempo previsto per la produzione. Terminata la fase di registrazione delle parti strumentali, il vocalist venne colpito da un’infiammazione virale alle corde vocali. Passarono cosi altri tre mesi di cure e riposo, durante i quali Tempest temette di non riuscire più a recuperare tutte le sue armoniche. A questo punto però non c’era più nessuno che non fosse pronto a scommettere sulla band e la stessa casa di produzione fini con lo stanziare il doppio del budget previsto in partenza.

Tempest tornò cosi in studio e fini di incidere quanto mancava. Quanto segue alle tre gemme citate fino ad ora, non ha forse la stessa magniloquenza, ma è, se possibile, ancora più affascinante e ricco di sorprese, oltre ad essere perfetto manifesto di un’epoca passata. Sono anni che hanno prodotto centinaia di dischi fast-food ma anche piccoli tesori, commoventi spesso anche per la loro ingenuità. “Time Has Come” e “Heart Of Stone” sono un ottimo esempio di quanto detto ma il vero tesoro sepolto è “On The Loose”. Il connubio tra chitarre distorte e melodia pop sono probabilmente al loro apice. Il pezzo fu concepito come colonna sonora di un film diffuso probabilmente solo in Svezia (forse non esattamente un male). Si tratta di fare vera e propria archeologia, ammesso che non abbiate ormai passato il traguardo dei quaranta nel qual caso è solo un tuffo negl’anni che furono. L’infanzia ha sempre però un suo fascino tutto speciale, che sia la nostra o quella di un genere che a questo disco deve davvero molto.

La vera trasformazione nel sound arriverà molti anni dopo, in seguito allo scioglimento e ad una reunion ormai insperata che ci restituirà una band maturata nella forma e nella sostanza. Se siete però in vena di divertirvi senza farvi troppi pensieri, godetevi una volta di più il conto alla rovescia e brindate ricordando che dietro ad ogni fine si nasconde sempre un nuovo inizio!



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