Granicus
Granicus

1973, RCA
Hard Rock

Recensione di Giovanni Capponcelli - Pubblicata in data: 24/04/09

Cosa spinge un gruppo a scrivere musica? Qual è la molla che scatta, che spinge ragazzi di ogni età, da ogni parte del mondo a imbracciare gli strumenti e radunarsi in un garage per provare? Mille cose probabilmente, ognuna delle quali è ben rappresentata in cinquant’anni di musica rock: la celebrità (Rolling Stones, capofila di un lungo elenco), i soldi (Led Zeppelin), la voglia di provocare (Alice Cooper, Bowie), la noia (Stooges), la paranoia (Nirvana); perché no, la droga (più o meno tutta San Francisco tra il ’66 e il ’69); anche la politica (dai Fugs ai Rage Against the Machine) o il riscatto sociale (AC-DC e molta parte del metal inglese delle origini). Chiaramente il sesso (ma qui l’elenco fatelo voi perché è troppo lungo).  Poi la rabbia (Who, punk quasi in toto).

Ma questo è solo un gioco, una generalizzazione esagerata e senza molta importanza; eppure, in certi casi, è necessario conoscere cosa spinge un gruppo di persone a suonare: questo ci permette di comprendere a fondo la musica e i suoi protagonisti.

Il 1973 è un anno che vede affievolirsi, artisticamente parlando, la vena dell’ “hard-blues-rock” inglese (Led Zeppelin, Deep Purple, Black Sabbath); artisticamente parlando, ripeto. In America invece proliferano gli epigoni degli stessi gruppi succitati: alcuni interpretano l’hard rock (o l’hard blues, non c’è poi tanta differenza) in modo originale  e tecnicamente interessante (Blue Oyster Cult, un nome su tutti); altri, almeno all’inizio del loro percorso, in modo più derivato e deteriore, non me ne vorranno i fans dei primi Aerosmith e Rush, due gruppi che per altro amo molto anch’io. Gibson, amplificatore Marshall e un urlatore dalla lunga chioma sono il comune denominatore. Da Cleveland, Ohio, arrivano i Granicus che, in apparenza, si inseriscono perfettamente in questo “trend”. Il gruppo deve il nome ad un fiume dell’Asia Minore su cui Alessandro Magno colse la sua prima importante vittoria contro i Persiani. Un punto di inizio; una zona di inserzione da cui lanciare un attacco contro gli imperi discografici e mediatici che stavano diventando sempre più smaliziati e professionali nella gestione del fenomeno “musica per la massa”.

Woody Leffel, Wayne Anderson, Al Pinelli, Dale Bedford e Joe Battaglia, i 5 componenti del gruppo, sono entità misteriose. Stephen Holden, che scrive le note che accompagnano la ristampa in cd della Free Records, li identifica come “native American”, indiani; da qualche parte nel web (notizie tutte da verificare, quindi) si scrive che alcuni membri del gruppo avevano combattuto in Vietnam alla fine dei ‘60 e anzi, da reduci, avevano trovato nella musica una naturale valvola di sfogo. Non so se ciò sia vero, ma mi piace pensare di si, perché il rock dell’album è perfettamente in linea con questo scenario. Il gruppo aveva firmato con la RCA, non proprio un’etichetta underground ed era quindi lecito aspettarsi una discreto successo del loro album d’esordio. Anche perché i nostri, dopo tre anni di peripezie nei clubs di Cleveland erano maturi  per un salto su scala più ampia. Ma le cose erano destinate ad andare diversamente: l’album non vendeva, i discografici li scaricavano, il gruppo si scioglieva, eccetera eccetera, è la solita storia. Dopo il ’73 dei musicisti non si saprà più nulla. Di loro resteranno le ectoplasmatiche figure in nero sulla copertina del disco, silhouette senza volti, al tramonto. Colori in apparenza bollenti, eppure distanti, eterei. Il disco è giocato su tonalità gelide, invernali, timbri cristallini da torrenti di montagna.

Ma veniamo alla musica e affrontiamo subito quello che è il nodo più critico quando si parla di questo gruppo: il rapporto con i Led Zeppelin. E’ vero, su un piano formale la derivazione è palese, o meglio, diciamo che i Granicus (assieme ai Budgie, in Inghilterra) si giocano il titolo di “anello di congiunzione” tra Zeppelin e Rush (i Rush maturi, della fine degli anni ’70). Sgombrato il campo da queste considerazioni, torniamo ai ragionamenti fatti all’inizio: cosa spinge un gruppo a fare rock? Perché è proprio questo il punto che rende i Granicus autonomi e liberi da ogni scomodo paragone; che li rende qualcosa di originale e profondamente personale (a tratti spirituale). Tutta la loro musica è mossa da qualcosa, da un sentimento che sta tra la rabbia, la frustrazione e la nevrastenia; in questo senso veramente musica da “reduci”. Non solo di guerra, ma reduci dalle fantasie e dai propositi di un epoca (’67-’69) che aveva promesso rinascita e aveva lasciato un vuoto culturale e sociale imponente. Le canzoni dei Granicus sono invettive (You're In America, Cleveland Ohio, Hollywood star) contro il vuoto che li circonda, oppure confessioni (Prayer, Nightmare) senza confessore, fatte nella speranza di trovare dentro sé stessi la scintilla vitale e spirituale perduta. Questa profonda base culturale (cultura “bassa”, di strada, lontana dai riferimenti letterari - tecnologici di B.O.C. e Rush) è proprio l’elemento unificante e caratterizzante di un album che può veramente vivere di luce propria, pur utilizzando gli stilemi formali del rock di metà ’70.

Il gruppo mantiene posizioni precise per tutti i 40 minuti dell’album: il sound ruota attorno alla voce stratosferica di Leffel, qualcosa tra l’urlatore più indemoniato d’America e un contralto teutonico del secolo scorso: assolutamente fantastico, sentire per credere. Rabbioso il doppio assalto chitarristico di Anderson (lead) e Pinelli (rhythm), a tratti addirittura jazzato il primo, in perpetuo movimento il secondo; sul fondo si dispiega un’agilissima sezione ritmica che da il meglio di sé nei ritmi veloci e serrati; colpisce in particolare la leggerezza e la fluidità della batteria di Battaglia, non facile da ascoltare in gruppi hard.

La traccia d’apertura, “You're In America”, e “Bad Talk” costituiscono 6 minuti di hard granitico eppure fluido; la prima si apre con un riverbero elettrico su cui si inserisce un ritmo “jungle” alla Bo Diddley che poi esplode in un tripudio di riff chitarristici in continua evoluzione; subito in evidenza la rabbia, quel risentimento profondo verso la nazione, incarnati dal cantante che da subito sfoggio oltre che della voce, di un talento teatrale non comune (got to stay alive!!). Bad Talk è la traccia più zeppeliniana del lotto: Leffel, quando torna sulla terra, assomiglia molto a Plant nelle note di registro medio, pur cantando molto meglio di quanto l’illustre collega faceva nel ’73 (vedi The Song Remain the Same, il live non la canzone…); bellissimi l’intreccio di chitarre che apre il pezzo e la solista di Anderson che serpeggia per tutta la canzone. Per tirare un sospiro di sollievo e introdurci al lato “spirituale” del gruppo ecco “Twilight”, un haiku acustico in un certo stile dei primi Black Sabbath (vedi Sleeping Village sull’album omonimo), arrangiato al mellotron da Martin Last, il produttore dell’album. Tre minuti misteriosi, veramente di penombra: un tramonto gelido nella tundra artica. Segue il vero cuore dell’album: “Prayer”. Costruita sul modello della “power ballad” standardizzata da Stiarway to Heaven – Child in time – Astronomy, è in realtà un pezzo tanto ambizioso quanto sincero: se la perizia (e la malizia) dei tre mostri sacri è inarrivabile, Leffel letteralmente recita il testo (di cui è autore); un flusso di coscienza senza strofe o ritornelli, introverso e pensieroso, quasi come se Van Morrison fosse accompagnato dai Metallica. Cambi di ritmo e di umore conducono all’ epica battaglia finale tra cantante e chitarristi in un volume continuamente crescente e infiniti overdubs che disegnano un’atmosfera da apocalissi imminente. Una preghiera destinata a perdersi nel vento? (I’ve losing my mind singing to you) Senza dubbio da brividi il ripetere ossessivo di Leffel “I've been trying!”: perché forse è l’intenzione che conta, non il risultato. Il pezzo lascia storditi, e qui veramente si rimpiange il vecchio vinile: la discontinuità tra i due lati, che ci lasciava il tempo di metabolizzare e meditare un attimo prima di rituffarci nel lato B.

Il lato si apre, così come il primo, con la rabbiosa tirata contro tutto e tutti di “Cleveland, Ohio”: non c’è scampo, gli strumenti si inseriscono in sequenza (batteria, basso, chitarra, chitarra, voce): il gruppo “spunta fuori da Cleveland” e la frustrazione di un’America provinciale ha libero sfogo: bellissimo il crescendo in falsetto di Leffel che ne dice di tutti i colori alla sua città, una sequenza realmente sarcastica. Con il brano seguente, “Nightmare”, torniamo al momento della confessione, della penitenza. Le chitarre alternano arpeggi semiacustici a momenti più robusti; manca la carica di Prayer, l’umore generale è veramente dimesso e cupo; la canzone esplora la morte e l’abbandono che una guerra lontana si è lasciata alle spalle (il cantante ha perso padre e due fratelli). Bello e piuttosto complesso il lungo assolo di Anderson sui lamenti del cantante. Finale sommesso e un po’ troppo strappalacrime (Father if you could see what you left behind / broken hearts broken lives). Pagato il tributo alle divinità familiari si ripiomba nell’hard classico e con “When You're Movin” il gruppo trova il modo di concedersi per una volta al sesso sfrenato, nel brano forse più scontato e troppo debitore ad Heartbreaker (Led Zeppelin) nel giro armonico. Ma i Granicus si giocano bene l’ultimo colpo: “Paradise” cerca una difficile sintesi tra i momenti “spirituali” e quelli più selvaggi, ma è un pezzo supersonico in cui il cantante veramente sfonda il confine degli ultrasuoni, la chitarra solista è costantemente a ruota libera e Dale Bedford sfodera al basso efficacissime scale boogie.

Il rito rock dei Granicus è concluso. Andate in pace; oppure no. Per una volta alcune ristampe in CD (nello specifico una del 2007 a cura della alquanto misteriosa White Stallion Records, in vendita qua e la sul web) aggiungono bonus tracks non inutili relative ad un’ apparizione radiofonica del gruppo del novembre 1973; accanto ad una versione molto blues di Cleveland, Ohio (con tanto di armonica), all’obbligatoria Prayer (che se in live perde di potenza e dell’ossessionante coda di overdubs, ne guadagna in pathos) e della trascurabile When You're Movin, compare un pezzo inedito (magari destinato ad un secondo album?) e molto interessante che non avrebbe sfigurato sull’album: “Hollywood Star”. Introdotto da un riff solitario di chitarra, entra a pieno titolo nel filone cattivo, degno prosecutore di “You're In America” e “Cleveland, Ohio”; Leffel declama invece di cantare e inserisce note di nichilismo e disillusione vagamente - solo vagamente - punk.

Il gruppo infatti non sopravviverà al 1973, piombando nell’oblio totale. Oggi almeno il vinile originale è un buon pezzo da collezione e le ristampe CD testimoniano che la memoria non è poi defunta. Le ragioni dell’insuccesso di un buon gruppo che incide per una grossa etichetta (RCA) sono un indovinello difficile. Di certo i Granicus hanno vissuto e suonato la loro parentesi rock su una schizofrenia evidente: da una parte trattando temi difficili come morte, guerra, crisi sociale e politica (roba che ti aspetti da un Neil Young, da un Dylan), dall’altra scegliendo come mezzo di espressione un genere in voga al tempo come l’Hard Rock: una musica quest’ultima fatta piuttosto per adolescenti che vogliono sballarsi con sesso e libertà. Chissà che questa “dissociazione” non sia stata un punto a sfavore di un gruppo che dietro chitarre tonanti, volle realmente dire qualcosa.



01. You're In America
02. Bad Talk
03. Twilight
04. Prayer
05. Cleveland Ohio
06. Nightmare
07. When You're Movin
08. Paradise

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