Paradise Lost
Faith Divides Us - Death Unites Us

2009, Century Media
Gothic

Classe: la capacità di copiare se stessi senza risultare rindondanti. Ouroboros.
Recensione di Fabio Rigamonti - Pubblicata in data: 02/10/09

Onestamente, non so se i Paradise Lost hanno inventato il gothic metal: come tutti i generi di derivazione, anche il gothic metal possiede una paternità piuttosto confusa e promiscua. Una cosa però è certa: se oggi lo si chiama gothic metal, è grazie ad un album intitolato “Gothic”, partorito dai Paradise Lost nel 1991.

Questi sono sempre stati i Paradise Lost: una band seminale, con lo sguardo proiettato in avanti, un oracolo ricco di spunti creativi da cui miriadi di formazioni hanno sempre attinto, più o meno indirettamente, ispirazione (i nostrani Lacuna Coil, ad esempio, probabilmente non sarebbero mai esistiti senza la guida rappresentata dal chitarrista Greg Mackintosh). Dopo aver definito le regole del gioco col già citato “Gothic”, la formazione dello Yorkshire, album dopo album, ritengo abbia raggiunto la perfezione del cosiddetto gothic metal “old school” con “Draconian Times”, un album che ha raccolto numerosi consensi anche commerciali nella metà degli anni ’90. Ma i Paradise Lost non sono una band capace di rimanere fissa su schemi consolidati, e già con il successivo “One Second” si aprirono all’elettronica, suscitando controversie accanite tra i fan dell’era primaria del gruppo. Per nulla scoraggiati dalle polemiche, i nostri avanzarono a testa alta tra episodi discografici più o meno convincenti, fino ad arrivare, nel 2002, a partorire quello che ritengo tutt’ora il manifesto perfetto di come un album gothic possa essere groovy, moderno, accattivante, al contempo oscuro e disperato: “Symbol Of Life”.

Avendo mostrato alla perfezione com’era il gothic del passato, ed avendo fornito una chiara direzione su come dovesse suonare il gothic metal del futuro, ai Paradise Lost non rimaneva che godersi un presente auto celebrativo, ed è in questa ottica che va visto l’album “Paradise Lost” del 2005, come una mera summa di tutto quello che il gruppo era stato in quindici anni di onorata carriera. Dopo quell’episodio discografico, era facile immaginare che il cerchio evolutivo della band ricominciasse laddove era cominciato, e con “In Requiem” vengono recuperate (più nelle intenzioni e nell’artwork, piuttosto che dalla musica) tutta l’oscurità dei primordi della formazione.

Bene, se “In Requiem” lo possiamo vedere un po’ azzardatamente come il nuovo “Gothic”, oggi questo “Faith Divides Us - Death Unites Us” rappresenta decisamente il nuovo “Icon”. Il paragone, stavolta, non è assolutamente azzardato: l’album è ancora più oscuro rispetto a “In Requeim”, con le chitarre mai così in primo piano e la voce di Holmes che ricopre alla perfezione tutte le estensioni di cui è capace (sì, anche un accenno di growl), ma è soprattutto il senso di sacralità profanata a venir riscoperto ed esplorato nuovamente dalla band, ed è tutto chiarissimo sin dal coro gregoriano che introduce, prima di essere affossato da un riffing malinconicamente spietato, l’incipit di “As Horizons End”, piuttosto che la litografica satiricamente diabolica posta in copertina (una figura che richiama l’antico medioevo, praticamente un manifesto delle intenzioni della band di riscoprire la sua storia).

L’album, come ho già accennato, è davvero pesante ed oscuro, con strutture di chitarra che strizzano l’occhio compiacenti al thrash metal (“I Remain”), piuttosto che allo shredding sfrenato del black (“Frailty”), il tutto però stemperato in un velo di malinconia assoluto così tipico per la band. Chi ha ascoltato ed apprezzato almeno due album della formazione inglese sa già alla perfezione a cosa mi sto per riferire, ma ora vorrei rivolgermi a coloro che avranno la fortuna di scoprire una formazione che è, di fatto, un pezzo di storia dell’heavy metal grazie all’ascolto di questo ottimo titolo. Carissimi, dovete sapere che con la musica dei Paradise Lost vi attende una desolazione plumbea e malinconica, una musica che, senza troppi fronzoli ed effetti speciali, sa arrivare all’interno dei recessi più oscuri del vostro animo, portando allo scoperto nervi delicati e sensibili, le liriche ermeticamente efficaci di Holmes poi faranno il resto nel sovraccaricare tali terminazioni che pregavate rimanessero nascoste. Per rendervi conto di quello che sto cercando di comunicarvi,  provate a guardare il video della title track di questo album, provate a guardarlo senza sentirvi angosciati, disturbati dalla consapevolezza di osservare un puro distillato di violenza psicologica meravigliosamente espresso sì dalle immagini, ma anche dalla musica, da quel violoncello iniziale che esplode sull’urlo disperato del ritornello.

Al di là dell’avere centrato perfettamente l’obiettivo di “partorire un album che tornasse a far sanguinare la musica gothic” (dichiarazione di Mackintosh durante le registrazioni in studio di questo cd), il disco non è, purtroppo, privo di difetti. Ma ai Paradise Lost si perdona anche una parte centrale poco incisiva, con l’accoppiata “The Rise Of Denial” e “Living With Scars” decisamente interlocutoria, soprattutto quando l’album torna ad altissimi livelli con una “Last Regret” romantica ed al contempo angosciante, piuttosto che sull’incalzante “Universal Dream” che sembra davvero uscita da “Shades Of God”. Si rincuorino anche i fan della prima era del gruppo: su questo album non c’è minimamente una concessione modernista o elettronica, è piuttosto un puro maelstrom nero che ribolle di fumi carichi di angoscia, fumi che, però, anziché produrre un aroma acre ed insostenibile, risultano tristemente dolci.

Insomma, la classe dei Maestri di svela ancora una volta: ancora una volta, dopo vent'anni di carriera, siamo qui a scrivere che un album dei Paradise Lost si dimostra superiore ad una concorrenza tutt’altro che poco numerosa. Il nuovo ciclo vitale della band pare rinforzarsi ad ogni release, quasi come se nuova linfa carica di ispirazione venisse profusa ad ogni episodio discografico lanciato sul mercato, quando alla loro età e con i loro presupposti artistici, sarebbe quasi lecito immaginarsi il contrario. Pare davvero di essere tornati come per magia al periodo pre-“Draconian Times”, quando si sentiva nell’aria che i Paradise Lost, presto, avrebbero fatto la storia.

Ouroboros.

Nota finale sull’edizione limitata oggetto della recensione:
Come al solito, i Paradise Lost confezionano un’edizione limitata in digibook che vale davvero la pena di essere posseduta. Tuttavia, ad onor del vero, stavolta le bonus track sono decisamente trascurabili, soprattutto le rivisitazioni orchestrali di “Faith Divides Us, Death Unites Us” e “Last Regret” che, piuttosto che suonare ancora più drammatiche rispetto alle originali, si ritrovano un arrangiamento decisamente sbagliato che ricorda, a momenti, le orchestrazioni dei film di James Bond. Insomma, un’edizione limitata con un bonus disc che, praticamente, non ascolterete una seconda volta, ma sempre bella da guardare e che farà la sua porca figura in collezione.



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