Black Mountain
In The Future

2008, Jagjaguwar
Rock

Recensione di Giovanni Capponcelli - Pubblicata in data: 15/10/09

Vancouver è una fredda isola canadese solo apparentemente estranea al Circo Rock. Tanto per cominciare il Canada vanta una solida tradizione hard a partire dalla fine dei ’60 e culminata artisticamente con "2112" dei Rush nel 1977. Vancouver fu sede di alcuni dei più memorabili concerti dei Led Zeppelin (uno su tutti, il 19 marzo ‘75, testimoniato sul bootleg "Snow Jobs", EVSD), e fu seconda patria per i Nazareth, che le dedicarono Vancouver Shakedown ("Close Enough for Rock N’ Roll", 1976, A&M). Fu la base degli eclettici Chilliwack ("Wanna Be a Star", 1981, EMI) ed è patria dei Black Mountain del barbuto Stephen McBean, uno che facilmente vincerebbe il premio “Best Dude” al Lebowski Fest. I Black Mountain arrivano nel 2008 al loro secondo lavoro dopo l’esordio omonimo; sono un gruppo maturo, affiatato, sono bravi musicisti e hanno 1000 idee fortunatamente non tutte chiare.

In the Future è un album impostato sui contrasti. Il titolo innanzi tutto, paradossale per un gruppo che si ispira, tra l’altro, alle sorgenti stesse del rock classico (Zeppelin, Sabbath, Purple, Young), pur filtrate attraverso le intuizioni delle successive generazioni post-punk (grunge e stoner sopratutto). Ma i contrasti sono essenzialmente sonori: maschile/femminile (come le due voci soliste di McBean e Amber Webber), hard/soft, acustico/elettrico, dinamico/statico. Fortunatamente, grazie all’ottima produzione e all’interpretazione dei musicisti, questi contrasti si risolvono in un disco comunque unitario, addirittura coerente,a tratti personale; ne risulta un album possente, biblico nel volume e nell’arsenale sonoro; sicuramente a tratti ridondante e –difetto principale- troppo, ma veramente troppo “serio”; molto (forse eccessivamente?) lungo: quasi un’ora, sarebbe stato forse un bel doppio LP.
Accanto ai già citati McBean, voce e chitarra (titanica, più propensa alla ritmica che all’assolo) e alla cantante Amber Webber, si muovono il basso di Matthew Camirand, le tastiere di Jeremy Schmidt e la batteria di Joshua Wells. La band tende a ricercare un sound di gruppo, coeso, pastoso, multidimensionale, senza concedersi a virtuosismi eccessivi (che è un bene in brani estesi come Tyrants e Bright Lights). Tutte le 10 canzoni sono originali a firma del gruppo, ma le menti musicali sembrano essere Schmidt e McBean (quest’ultimo autore di quasi tutti i testi); Wells funziona come regista occulto, presidiando i cambi di ritmo e i lunghi silenzi che precedono frenetiche ripartenze. Bellissima la copertina, saggio di “geologia progressiva”.

"Stormy High" apre secondo tradizione con il giro molto hard di una Sweet Leaf suonata dagli Sleep, eppure è cantata con gli intrecci vocali dei Jefferson Airplane: una caratteristica a cui il gruppo farà ampio ricorso nel corso dell’album. In effetti Amber Webber è una morettina coi capelli lisci e la riga da una parte, forse senza il carisma sessuale di Grace Slick ma non priva del subdolo magnetismo di Meg White. Come molti dei testi, anche questo sembra l’evocazione di un rito pagano che resiste strenuamente al dilagare delle Religioni Organizzate. In pieno contrasto con l’opener, "Angels" è una ballatona tardo estiva, riflessiva e con la malinconia di certi Black Rebel Motorcycle Club, perfino con un retrogusto di Liam Gallagher nella voce di McBean: è un pezzo accattivante, appena dolciastro eppure ben risolto nell’intermezzo di mellotron che finalmente sostituisce, in un pezzo del genere, un assolo di chitarra che non risulterebbe banale solo se suonato da Slash. Fino adesso tutto nel solco della migliore tradizione rock: prima traccia dura e incalzante, buona per un singolo; secondo pezzo più posato: hard/soft, maschile/femminile, perfetto.

"Tryants", con "Bright Light", è il cardine del CD: un’epica di otto minuti introdotta da una cavalcata à la Blackmore-Lord. Poi silenzio; il brano procede cupo e profondo, senza rinunciare alla malinconica eloquenza di Child in time, ma con l’inserimento di tastiere flautate in purissimo stile John Paul Jones, molto suadente seppure un po’ didascalico. La canzone procede dispiegando ogni scontro sonoro possibile tra chitarra, batteria e tastiere, con le voci di Webber e McBean questa volta più in zona Amon Duul che Jefferson. La tensione si scioglie ai 5’, dopo un break di batteria che lascia strada ai martellanti riff heavy della chitarra. Il testo è un kolossal sul tirannicidio, con immagini di lotta, perfino di guerra, di sangue e  di spade ("Tyrant, you'll be damned by your power and the blood you've split You will die by the sword"), un immaginario caro a tanto metal (Rainbow, Dio…); languido ed evocativo il finale, in cui ricompaiono le tastiere sul timbro di Stairway to Heaven. Un pezzo monumentale, migliore al primo ascolto perché col tempo diventa quasi pedante, un difetto questo che purtroppo si estende facilmente a tutto il lavoro.

Dopo tanta abbondanza, "Wucan", riesce a reggere il colpo grazie ad un ciclico giro di tastiere e ad un riff crescente di chitarra vagamente arabeggiante, il risultato è quasi emulo dei Queens of the Stone Age più bizzarri (R, 2000). Il refrain potrebbe comunque figurare egregiamente su Volunteers: “Flower, flower train that won't bring you home  So we can come together Yeah, we can come together”; resta però un senso sinistro di occulto, dovuto anche ai sintetizzatori che si fanno quasi spaziali. Della canzone esiste un video molto low-fi, diretto dalla band stessa, che sembra rubato alla scena stoner di Palm Desert; in effetti la musica dei Black Mountain è torrida per un gruppo originario di basse latitudini.
"Stay Free" è un country acustico cantato in bizzarro falsetto, senza fronzoli, lineare e prevedibile come i Jet che imitano gli Stones; l’atmosfera di fondo riprende in qualche modo quella di Angels. Un nuovo incantesimo, anzi un vero sortilegio, è invece "Queens will Play", con un riff d’apertura rubato agli Zeppelin di Bring It on Home (che a loro volta citavano Dixon e Williamson). Webber è la star di questo giro, ammaliante ma piena di sottintesi come la Meg Withe di In the Cold, Cold Night (ma più intonata…). Tetro il testo: "Blood crawls through the night holes Blood sprawls across the walls Blood crawls up and hassles Blood sprawls across the walls". E forse è questa eccessiva seriosità, questa adulta tetraggine, la pecca maggiore di quest’album il cui lessico abbonda di riferimenti occulti, notturni, decadenti, addirittura violenti; parole forti: demon, darkness, witchery, destruction, Human war oltre al “king of the damned” di Tyrants. Una serietà eccessiva ma comune a molti gruppi impegnati a modo loro per riportare in auge il Rock con la R maiuscola (B.R.M.C., The Brian Jonestown Massacre, Black Keys solo per non entrare in ambito Metal…). Ma il rock nacque come musica di divertimento, intrattenimento puro, svago e voglia di vivere a fondo la propria vita (Fun fun fun, come cantava Chuck Berry). Manco a farlo apposta segue "Evil Ways", un rock carico, un po’ Deep Purple ma con un timbro “Gibson” al posto della Stratocaster di Blackmore. Wild Wind è, non solo nel titolo, una Wild Horses in miniatura, riannodando il filo col roots-rock di Stay Free; ma è solo un frammento, e non potrebbe essere diversamente, visto che risulta come risucchiata dal magum opus Bright Light, la seconda Epica del disco, quella definitiva. Più che una canzone è una suite in quattro movimenti, due statici (il primo e il terzo) e due dinamici (secondo e quarto): è il pezzo che meglio di tutti gli altri riassume la poetica del contrasto perseguita dal gruppo. E’ anche una delle canzoni rock più enormi (in senso quantitativo, non estetico) dai tempi dei capolavori dei Mars Volta. Il testo è la solita invocazione arcana, essenzialmente una sciarada di parole accomunate dalla lettera “H”: "Hurried, Hunters, Helpless, Hitting, Horror, Hit, Hard, Holy, Halo". La prima parte, dopo un’introduzione per chitarroni western, è un mantra ossessivo delle voci soliste che ripetono allo sfinimento la formula "Bright light/Light bright" su un tappeto circolare di tastiere sommesse e un battito insistito di batteria. La seconda parte è roboante chitarrismo elicotteristico, forse il passaggio più Heavy di tutto il disco. Poi, a metà del brano, ritorna la stasi: il terzo movimento subentra alla chitarra con il suo placido mare tastieristico come fossero di scena i Tangerine Dream dei primi ’70: è space-rock puro e incontaminato, niente ritmica, ronzii sullo sfondo e un organo da cattedrale gotica in primo piano. Il passaggio hard/soft è qui molto efficace, tanto da dipingere un vero paesaggio sonoro in evoluzione. Quando si unisce una batteria dal basso profilo, il viaggio intergalattico volge al termine; un sound desertico à la Kyuss ci trasporta nella quarta e conclusiva parte della canzone: di nuovo chitarre imponenti, voci tormentate ma ritmo lento, pesante e cadenzato. Lo scenario è post-atomico: "Total night mare Darkness Lightning crawls Misleading like you led the blind". Il brano sfuma lentamente su strati di tastiere e chitarre. C’è ancora tempo per riprendersi, forse per purificarsi con l’ultima evocazione di  Amber Webber, che canta (bene) quasi a cappella, supportata solo da un organo atmosferico: "Night Walks" è una serenata lunare, con un tocco celtico da magia della regina degli Elfi e un lato quasi new age. Un ultimo battesimo pagano.

Così si chiude un album imponente  – fin troppo - come un film di Cecil de Mille; il voto oggi è un 7,5 ma “col tempo” la tendenza sarà calante. Un lavoro pretenzioso ma che riesce dopotutto a mantenere premesse e promesse. Un album dal sapore e dalla portata “antichi”, prodotto da un gruppo da cui è a questo punto lecito aspettarsi buone cose in futuro, se non dal punto di visto della popolarità, sicuramente sul piano artistico. Non è poco.





01. Stormy High   
02. Angels           
03. Tyrants   
04. Wucan   
05. Stay Free   
06. Queens Will Play  
07. Evil Ways   
08. Wild Wind  
09. Bright Lights
10. Night Walks  

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