Baroness
Blue Record

2009, Relapse Records
Sludge

Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 16/10/09

A suffragio della legge di conservazione della massa, Antoine Lavoisier pronunciò una frase che chiunque abbia avuto a che fare con la chimica ha sentito almeno una volta nella vita: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.” Con le dovute distanze, possiamo affiancare questa celebre frase al nuovo album degli americani Baroness, l'attesissimo "Blue Record".

Che i Baroness non fossero propriamente degli innovatori lo si era capito immediatamente dal sorprendente debutto, quel "Red Album" che mischiava il tipico "Mastodon sound" di prima maniera, con influssi southern, vocazione sludge/stoner, psichedelia, post-core e chi più ne ha più ne metta, dando alla luce un disco camaleontico, ostico, cervellotico. Una specie di “flusso di coscienza”, senza strutture definite, un pericoloso ammasso di riff e soluzioni a tratti anche geniali, se vogliamo anche un po' slegate tra loro, ma a mio avviso affascinanti proprio per questo. Ascoltare "Red Album" era come un viaggio sulle montagne russe a occhi bendati, non si sapeva mai cosa aspettarsi, in un continuo saliscendi di emozioni. Come era lecito aspettarsi, l'attesa per il seguito era palpabile, come testimoniano le attenzioni che in questi giorni i giornali specializzati stanno riservando ai musicisti della Georgia.

Che dire dunque? Delusi? No. Soddisfatti? “Ni”. Mi spiego meglio. Dire che un album del genere possa essere deludente è da ricovero immediato, ma lasciatemi dire che ascoltando le prime battute dell'album, si capisce subito che non è proprio quello che ci si aspettava. La cosa che salta subito all'orecchio è il “labor limae” compiuto dai Baroness. Niente più suoni a ruota libera, ma canzoni strutturate in maniera più convenzionale, sempre con interessanti divagazioni, ma possiamo dire con certezza che i nostri abbiamo voluto darsi una bella regolata in fase di scrittura. Un disco più facile (e questo testimonia quanto fosse avanti "Red Album"), più asciutto, con la splendida vena psichedelica ormai quasi del tutto accantonata, per un album molto più vicino a un certo post rock che al mostruoso ibrido descritto poco sopra. Anche a questa tornata i Baroness non inventano nulla, non distruggono, ma singori... creano, creano e trasformano. Un album che riflette il colore scelto per l'occasione, un blu che concilia con la calma, con la pacatezza verso cui vi porterà il disco, una gita in barca con un mare calmissimo, in un percorso leggero dove però non manca qualche scossone, vedi la trascinante "Jake Leg", molto southern e dal riffing di grande classe, autentiche perle come "Swollen and Halo" o "A Horse Called Golgotha", dove la ruvidezza del passato si scontra con il mood gentile del disco. Un susseguirsi di tracce ben definite e a se stanti, che tolgono però parte dell'imprevedibilità a cui ci avevano abituato i nostri. Come se a racchiudere tutto in una forma maggiormente disposta ad essere accolta da un pubblico più vasto, rendendo più smussati gli angoli del proprio sound, si fosse perso in spontaneità, rendendo più marcati i piccoli difetti cronici, come le vocals “sguaiate” di alcuni passaggi ad esempio, non più perdonabili in un contesto così curato.

"Blue Record" rimane comunque un album che svetta sulla media delle uscite odierne, al di là della perizia da redattore, brani come "War, Wisdom and Rhyme" o "The Gnashing", così intelligenti e godibili, non si trovano facilmente. Un album che conferma le enormi potenzialità di questi ragazzi, ovviamente superbi alle prese coi propri strumenti, senza travolgere come in passato. Il futuro spetta anche a loro e stiamo certi che dei Baroness ne sentiremo ancora parlare.



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