Vanilla Fudge
Vanilla Fudge

1967, Atco
Rock

Recensione di Giovanni Capponcelli - Pubblicata in data: 20/11/09

Sono pochi i gruppi che possono vantare qualche paternità su un genere; sono ancora meno i gruppi che hanno lasciato un segno in ambiti diversi della musica popolare; ma solo i Vanilla Fudge possono rivendicare tutto questo senza oggettivi meriti musicali. Fantastico.

Se fu fortuna, equivoco o raffinata strategia poco importa. Sta di fatto che il tetragonale gruppo di Long Island già nel 1967 suonava qualcosa che sarebbe stata Psichedelia, che sarebbe diventato Hard, che si trasformerà in Progressive, giù giù fino al Metal. Una summa di musica organizzata attorno a pochissime idee, riassumibili in un dichiarato quanto vago “programma” di sintesi tra pop e patrimonio classico, puntando direttamente ai massimi  nei rispettivi ambiti (Mozart, Beethoven, Beatles). Beata sfacciataggine. Il tempo dimostrerà che nella maggior parte dei casi la fusione tra Pop e Classica (o addirittura Lirica) finisce per svilire entrambi, pur a fronte di straordinari riscontri di pubblico (da Emerson, Lake & Palmer a Bocelli). Del resto fare acid rock tra il ’66 e il ’67 sulla costa orientale non era facile: non avendo Andy Warhol come produttore, il più delle volte il tutto si rivelava una buona montatura, come il “Boston Sound” degli Ultimate Spinach.

All’epoca Mark Stein, Vince Martell e Tim Bogert suonavano facile blue-eyed soul col nome di Pigeons. Con l’ingresso in gruppo del poderoso batterista Carmine Appice e l’approdo alla Atco, sotto la tutela del produttore Shadow Morton (già con le Shangri-Las) le cose cambiano. Il gruppo non ha alcun talento per il songwriting (difetto non da poco e che li logorerà in fretta) ma un certo ridondante virtuosismo non manca. Nasce così un album d’esordio tutto di cover, scelte accuratamente tra il miglior pop easy-listening del periodo.
Aveva dettato la linea il singolo dell’estate ’67,  "You Keep Me Hanging On", già hit n°1 delle Supremes solo l’anno prima, ora portato dai Vanilla ai numeri 18 in USA e 67 in UK. Imponente ouverture strumentale, voluminose parti per l’Hammond B-3 di Stein e soprattutto la maestria di Appice: il prode batterista potrà raccontare di avere insegnato la nobile arte del volume non solo al fratello minore Vinny (Black Sabbath, Dio…) ma addirittura al Mostro Sacro John Bonham, che assestò il suo drum-kit sull’esempio del Ludwig di Carmine, con cui fu in tour nel 1969. Su tutto, il canto sofferto (nel senso di faticoso), melodrammatico di Stein e armonie di voci bianche a tratti spiazzanti, a tratti ingenue. Ne esce un pezzo di hard sinfonico ben più spinto di quanto nella stessa estate covavano  Nice e Procol Harum oltreoceano. Grazie al successo del singolo, il gruppo approda all’Ed Sullivan Show dove inscena una performance molto artificiosa e teatrale, eppure di grande effetto.

Tutto l’esordio, se non tutta la loro breve carriera, si muove sulle medesime coordinate, estremizzando due concetti chiave: “deformazione” e “pesantezza”; se nella deformazione c’è il gusto acido e facile alle droghe dell’epoca, il resto è qualcosa di nuovo. Il disco può in effetti considerarsi un’ode alla pesantezza: nel beat, nella cassa, nella cadenza, nel tono e nelle inflessioni della voce. E’ una musica-medusa che pietrifica la sua stessa ispirazione e mortifica le speranze di swing e giovanile superficialità necessarie al rock; si riveste di una coltre spessa di inevitabile seriosità, come se una forza di gravità esagerata gravasse sui musicisti. Le cover dei Beatles, una ad aprire una a chiudere, sono esemplificative; specie gli otto minuti finali di Eleanor Rigby, a ritmi lenti, dimessi e ipnotici, aperti dalla consueta tirata strumentale che precede una linea di canto più depressa del lecito; la stessa “lente deformante” si applica anche a "Ticket To Ride", gonfiata di steroidi hard rock da essere a mala pena riconoscibile, bella comunque. "People Get Ready" è uno dei pezzi più lineari: la base dei partenza, un singolo degli Impressions di Curtis Mayfield, è del resto un grande brano soul. Stein e Compagni ci costruiscono attorno la solita sinfonia in più movimenti, ma attenuano in tutta la prima parte il furore strumentale, lasciando solo un mellifluo tappeto di organo che per altro esalta tono religioso del testo; la scrittura di Mayfield ben si addice in effetti ai trascorsi dei musicisti.  Il pezzo esplode solo alla fine, quando Appice e la chitarra di Martell irrompono sulla scena, un po’ come succede in The Rain Song degli Zeppelin. "She's Not There", degli Zombies, forse il gruppo che i Vanilla avrebbero voluto essere, e la celebre "Bang Bang" di Sonny Bono sono al contrario dilatate, srotolate attorno all’Hammond e all’eccentrico basso di Bogert, sempre in bilico tra l’anarchia free, la banalità di McCartney e la casualità più totale. Sono pezzi senza né capo né coda, con cambi di tempo, di tono, di direzione e di qualunque altra cosa si possa invertire; si muovono rinunciando spesso al facile 4/4 e a giri ritmici ortodossi (Appice è molto bravo, a essere sinceri…), dipanandosi come enormi invertebrati. L’ambizione è tanta, i risultati un po’ confusi. Ma sta qui il bello del gruppo. Il sound poi è sublime: dalle inflessioni indiane tra Jorma Kaukonen e Ravi Shankar di Martell, alle progressioni delle tastiere, alla batteria roboante di Appice. Sono suggestioni opposte che NON stanno insieme, ma il gruppo è sempre così esagerato nel forzare gli schemi ficcando tutto dentro la canzone, che alla fine salta fuori una tavolozza sonora di totale riferimento tanto per i primi Deep Purple (fans dichiarati della band) quanto per gli Uriah Heep, quanto addirittura per il timbro di certi Black Sabbath. Per non parlare poi di tanto progressive inglese “keyboards-driven”.
Nessun commento invece per i frammenti di 20’’ - Illusion of my childhood ,2 &3 - che separano le canzoni: "Stra", "Wber", "Ryfi", "Elds" (oh, che figata! salta fuori Strawberry Fields…): Gianni Brera li avrebbe rubricati alla voce “masturbatio grillorum”.

Vanilla Fudge è sicuramente uno dei migliori brutti album degli anni ’60 (caratteristica comune ad altri lavori del gruppo): ridondante, magniloquente, zeppo di retorica, di autocompiacimento di musicisti effettivamente molto bravi. Non temete, i Vanilla faranno anche di meglio (leggi peggio). Fu comunque un album dal successo notevole, oggi irrecuperabile sotto le macerie del tempo, ma allora di grande impatto e ispirazione per la scena rock, anche per quella più sonnolenta di casa nostra, in cui i Vanilla Fudge avranno un discreto successo coi singoli (arriveranno a vincere alla Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia nel 1969). Scortato da una copertina che sembra il fumetto di 007 – Operazione Goldfinger e con una foto di Carmine Appice in una mise giacca - pantaloni imbarazzante (ma per cui pagherei una cifra) arriverà nella top-ten in USA e in classifica anche in Inghilterra: niente male per un gruppo che, non sapendo mai che strada scegliere, ha finito per indicarne molte a tanti altri.





Side A
01. Ticket to Ride  
02. People Get Ready   
03. She's Not There   
04. Bang Bang
 
Side B
05. Stra (Illusions of My Childhood, Pt. 1)
06. You Keep Me Hangin' On 
07. Wbar  (Illusions of My Childhood, Pt. 2) 
08. Take Me for a Little While
09. Ryfi (Illusions of My Childhood, Pt. 3)  
10. Eleanor Rigby
11. Elds

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