Timecut
Timecut

2008, Valery Records
Alternative Rock

Recensione di Marco Belafatti - Pubblicata in data: 23/11/09

L’Italia non è mai stata un fanalino di coda nel panorama dell’alternative rock e la presenza di una realtà come quella dei Timecut, tanto per fare un esempio, dovrebbe rappresentare un vero e proprio motivo di vanto per l’intera scena underground del nostro paese. Lontani dalle brame mainstream di tanti (troppi?) colleghi, i Nostri hanno coraggiosamente scelto di gettarsi a capofitto su quella che, secondo un’ottica tipicamente italiana e da un punto di vista meramente commerciale, potrebbe incarnare la via del non ritorno, andando a trattare la materia grigia e riluttante della vita urbana del nuovo millennio. D’altronde, il nome Timecut non ha proprio nulla da spartire con la tradizione spensierata e nazionalpopolare del Bel Paese; è proprio nella più torbida e conturbante metropoli londinese che il progetto ha assunto le sue attuali sembianze, grazie all’impegno di Bait, Joba ed Alle, già attivi tra le fila di Hangin’ On A Thread e Susan Acid. Le note che scaturiscono da questo itinerario, allo stesso tempo concreto ed introspettivo, sono fuligginose, secche, oscure: i Timecut si fanno cantori di inquietudini post-adolescenziali, di un esistenzialismo spicciolo ma pur sempre anticonformista, recalcitranti spettatori di una realtà oppressiva ed alienante.


Il fatidico secondo album, rilasciato nel 2008 dalla lungimirante Valery Records, è quasi una dichiarazione d’intenti definitiva per il terzetto, un ipotetico matrimonio tra la scuola post grunge ed il rock industriale dei Nine Inch Nails, dove una tagliente elettronica fa da collante tra l’acidità della sezione ritmica e la voce emozionale di Bait. È in un brano come “The Meat Show” che i Nostri regalano il proprio meglio, affidandosi ad una strofa ai limiti del rock atmosferico, con tanto di voce sussurrata e tastiere soffuse in sottofondo, fino a sfociare in un ritornello che abbraccia in pieno la decadenza del grunge. Certe sonorità sembrerebbero invece affiorare dai Katatonia più disincantati di “Last Fair Deal Gone Down” (vedi “‘bout You Selfish”) : palese è la vicinanza con la formazione di Jonas Renkse nel rileggerre drammi esistenziali in chiave urbana ed iper-introspettiva, quasi folle, psicotica. Impossibile, infine, non scorgere l’influenza dei Tool nel tessuto sonoro visionario di quest’opera omonima. Gli arrangiamenti, deliziosa ciliegina sulla torta del disco, suonano adulti, elaborati, penetrano sotto pelle ed aiutano a dipingere un quadro essenzialmente nuvoloso nel quale la consistenza del tempo viene frammentata in infiniti attimi di disperazione (“Incubo”).


Non mancano però, ed è giusto sottolinearlo, episodi fin troppo vicini a quelli che sono stati i padri ispiratori dei Timecut, che, alla fine della fiera, annoiano e nulla aggiungono alle lunghe pagine di storia del rock e della musica contemporanea già scritte dai nomi sopraccitati. Il disco soffre in particolar modo a causa di una seconda metà poco ispirata e leggermente al di sotto delle aspettative (se escludiamo una riuscitissima cover di “Street Spirit (Fade Out)” dei sempreverdi Radiohead), ma siamo sicuri che, continuando a lavorare con questo criterio, la band potrà puntare sempre più in alto, magari estendendo la propria fama oltre confini di un paese che, nei confronti di sonorità così poco convenzionali, continua a dimostrarsi terribilmente taccagno.





01. Pianoloud
02. “The Meat Show”
03. 'bout You Selfish
04. Idol on the Cross
05. Incubo
06. Doublethink Revival
07. Watch Me
08. My Flesh Coffin
09. LondonGrey
10. The Gift
11. Street Spirit (Fade Out)

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