Bob Dylan
Bob Dylan

1962, Columbia
Folk

Recensione di Giovanni Capponcelli - Pubblicata in data: 24/02/10

Essere folk singer al Greenwich Village negli anni ’60 non era una cosa inconsueta. Certo se il tuo nome è Robert Allen Zimmerman, ma in giro ti fai chiamare Bob Dylan, le cose sono un po’ diverse. All’alba del folk revival della East Coast, mentre “il Progenitore” Woody Guthrie languiva abbandonato in una camera del Greystone Park Hospital, un giovane folk singer si affacciava alla ribalta grazie all’interessamento del produttore John Hammond e della Columbia Records. Il Nostro ha faccia ancora tonda da bambino, poco più di vent'anni, una chitarra acustica sufficientemente fluida e corretta; in più ci sono una vitalità quasi rock n’ roll e la necessità tremenda di comunicare. Zimmerman è cresciuto in Minnesota col mito di Guthrie, dell’hobo vagabondo, con pensiero acuto e parola tagliente, che si serve della “ballata” per raccontare la disgrazia degli “ultimi” negli anni depressi tra le due guerre. A Dylan, germogliato a New York, non poi manca  l’ispirazione del blues, la vera voce dei margini di una società che si diceva civile.

Dylan entra in studio con una manciata di brani tradizionali riarrangiati con fedeltà, quasi con fiducia; sono un paio gli originali a suo nome. Questa proposta musicale conserva un’innegabile coerenza: il folk era genere “colto”, da adulti, a differenza del pop o del surf che erano ad uso e consumo dei teenager. La voce di Dylan è sottile, scontrosa, ancora piuttosto anonima; la pronuncia non è sempre chiara: armi che saranno affinate negli album seguenti.
Le canzoni sono tutte ispirate alla tradizione popolare, tanto all’antico country e al folk dei bianchi (Jimmie Rodgers) quanto alla musica rurale dei neri. Proposte con sapienza e senza poi troppe pretese; suonate per essere intense, non prive di significati ma anche per piacere all’ascoltatore non sempre attento.

“You're No Good” e “Freight Train Blues” (rispettivamente di James Fuller e Mississippi Fred McDowell) non dimenticano il puro spirito  country nel fraseggio vocale forsennato e virtuosistico. Lo stesso accade per il traditional “Pretty Peggy-O”. Ma è nell’approccio tutto personale al blues che Dylan si distingue presto da illustri contemporanei come Eric Von Schmidt e Dave Van Ronk. Per esempio “In My Time Of Dyin'” si regge su intrecci contorti di chitarra à la John Lee Hooker e su una voce quasi da Lightin' Hopkins isterico; “Fixin
-to-die”, di Bukka White, mantiene tutto il groove ritmico dell’originale. La chitarra suona sempre corretta, leggera, disciplinata anche nei passaggi più tormentati, lontana dalle spigolosità, dal volume sonoro e dalle “scordature” del blues di colore. Dylan si applica con impegno nell’imparare quanto più possibile sul genere: lo fa con un interesse tutto bianco e medio-borghese, più accademico che non passionale. Ne risulta una piacevole traduzione per il pubblico delle coffeehouse del Village e dei campus progressisti. Ascoltatori interessati ma lontani, anche “antropologicamente”, dalla musica del Delta. “Baby, Let Me Follow You Down” sarà ripresa anche dagli Animals, così come la celeberrima “House Of The Risin' Sun” che qui si trova ad essere uno dei pochissimi momenti riflessivi e introversi in un album altrimenti spumeggiante e pieno di ritmo; sofferta ai limiti dell’apprezzabile la malinconica linea vocale.

“Talkin' New York” è il primo testo proposto da Dylan su disco: davanti ad un’armonica spumeggiante, il cantante a ruota libera si immerge nel proprio Inverno nella Grande Mela, tra i locali del Village, le strade innevate e i mille piccoli ingaggi che precedono la “svolta”. Quello che negli anni seguenti sarà canto di protesta e manifesto culturale, per ora è solo sagace piccola arguzia (“I come into New York town People goin' down to the ground, Buildings goin' up to the sky”).
“Song To Woody” è il secondo originale di Dylan, memore dell’incontro con il suo primo mentore, avvenuto in una stanza d’ospedale. Intima e devota, è un pacato sonetto folk su quel mondo che lo sfortunato Woody non potrà più né cantare né percorrere nei suoi viaggi stagionali alla ricerca di un posto al sole.

Hey hey Woody Guthrie I wrote you a song

About a funny old world that's coming along

Seems sick and it's hungry, it's tired and it's torn

It looks like it's dying and it's hardly been born.


(“Ehi Woody Guthrie ti ho scritto una canzone
su un vecchio buffo mondo che ci sta davanti

sembra malato ed è affamato è stanco e lacerato

sembra che stia per morire ed è appena nato
”)

 

That come with the dust and are gone with the wind” è un verso illuminato che si riallaccia alle polverose ballate di Guthrie ma getta anche un ponte sul nuovo folk che verrà e che vedrà  Dylan protagonista.

Il disco non fu un successone ma ugualmente fece del giovane Zimmerman una delle promesse più luminose dei circuiti culturali newyorkesi. Se l’album scompare al confronto dei capolavori della maturità
, è pur vero che la musica di questo esordio è energetica e carica di onesta passione; soprattutto ha l’importanza storica di essere la  prima pubblicazione ufficiale di chi diventerà presto un gigante della musica leggera mondiale.





01. You're No Good       

02. Talkin' New York      

03. In My Time Of Dyin'               

04. Man Of Constant Sorrow    

05. Fixin' To Die               

06. Pretty Peggy-O        

07. Highway 51 Blues    

08. Gospel Plow                             

09. Baby, Let Me Follow You Down

10. House Of The Risin' Sun       

11. Freight Train Blues  

12. Song To Woody       

13. See That My Grave Is Kept Clean

Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool