Foreigner
Can't Slow Down

2009, Rhino Records
AOR

Tornano dopo 15 lunghi anni gli esponenti britannici del'AOR
Recensione di Gaetano Loffredo - Pubblicata in data: 14/03/10

Nono album della discografia Foreigner, gruppo di copertina che ha venduto milioni di dischi negli anni ottanta facendo il giro del mondo con la celeberrima “I Want To Know What Love Is” (l’avete sentita e cantata tutti, non temete), e che si riporta nuovamente sotto i riflettori dopo tre lustri dal precedente “Mr. Moonlight” e a quasi quattro da “Unusual Heat”. Mick Jones, leader indiscusso e fondatore nel lontano 1976, rientra in scena con una formazione che non prevede lo storico Lou Gramm al microfono, oggi infatti alle prese con la sua band solista, ma è ben sostituito da Kelly Hansen, quest’ultimo accompagnato da Jeff Jacobs alle tastiere, Thom Gimbel (sassofono e seconda chitarra), Jeff Pilson al basso e naturalmente da Mr. Jones (chitarra, pianoforte, tastiere).

"Can’t Slow Down" l’hanno bramato in molti, Mick si è risvegliato dal lungo letargo e ha prodotto una dozzina di nuovi pezzi (il tredicesimo, “Fool For You Anyway” è un estratto del primo lp  rispolverato per l’occasione) che ad essere onesti non hanno poi molto da spartire col passato, non tanto per la discreta vena compositiva quanto per il fatto che qui di rock ci rimane ben poco, assorbito da una valanga di ballate strappalacrime che lo riducono quasi inaspettatamente ad un disco pop. Il buon vecchio AOR dei Foreigner rivive in “Angel Tonight”, nella title track “Can’t Slow Down”, in “Living In A Dream”, brani incalzanti e dalle melodie funzionali, condizionati però dalla già menzionata raffica di canzoni melanconiche che fugano ogni dubbio sulla direzione musicale intrapresa dai britannici. Il suono anni ottanta a là “Survivor” scompare quasi totalmente e al suo posto ne appare uno più attuale, in questo modo è più facile restare alla larga dall’autocitazione ma attenzione a non intaccare quello personalizzato in decenni di gloriosa carriera. Lenti e semilenti si ergono quindi incontrastati, dalla psichedelica “In Pieces” (senz’altro un gran pezzo), alle più classiche “When It Comes To Love” e “As Long As I Live” fino alla sdolcinata “I Can’t Give Up”. Belli sì, ma il troppo stroppia, e in generale in tutto il disco c’è un senso permanente di musica votata alla “malinconia plastificata”.

Can’t Slow Down è e resta un album discreto, non paragonabile ai grandi classici dei Foreigner ma abbastanza forte per assicurare un lungo tour mondiale che farà tappa a Milano nel mese di aprile. L’avrete intuito, sono moderatamente soddisfatto dalla nuova fatica di uno dei gruppi AOR più influenti di sempre, ma in certi casi è bene accettare il minimo sindacale perché sono conscio del fatto che poteva andare molto peggio di così.



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