“L’oscurità cala ed un altro giorno di duro lavoro giunge al termine. I tavoli sono stracolmi di cibo e i corni sono pieni di birra artigianale. Si comincia a raccontare leggende e a recitare versi poetici; racconti di impavidi guerrieri e nobili re, di grandi imprese e di battaglie duramente vinte, canti di vita e di morte, di ubriachezza e di festeggiamenti, ballate di prosperose fanciulle e camerieri lascivi, di miti e di esseri mitologici che tramano a favore delle forze del male. Le storie dei bardi continueranno ad essere raccontate fino a quando tutti non saranno ubriachi più del dovuto”
Così si presenta il nuovo album dei danesi Svartsot, gruppo che va a infoltire il filone Folk Metal ormai quasi pronto a traboccare dal famoso vaso. Nascono nel 2005 a Randers, fautori di un mix tra metal e musica folk, accompagnato da ruggiti a squarciagola in lingua madre; un solido compromesso utilizzato in modo tale da poter divulgare i racconti mitologici, storici e folcloristici danesi in tutto il mondo. Da subito si nota la presenza principale, costante ed esuberante del flauto, a cui è accostata tutta un’altra cerchia di strumenti folk che però sono relegati in secondo piano. Il loro primo album “Ravnenes Saga” , che arriva dopo due demo, giunge sul mercato nel 2007 passando tutto sommato in sordina nonostante i moltissimi pareri positivi da parte della stampa specializzata.
Tra cambi di Line-up e brevi sortite live, i vichinghi danesi ci consegnano sugli scudi questo “Mulmets Viser” che segue a tutti gli effetti in ambito musicale, lirico e tematico il debut album. Anche qui troviamo l’onnipresente flauto a farla da padrone, conducendoci per mano tra balli attorno al fuoco e feste silvane, a cui fanno capolino ogni tanto mandolini e fisarmoniche suonati egregiamente dal signor Hans-Jørgen Martinus Hansen. La parte vocale, a cura di Thor Bager, è graffiante e secca, fulgido contrasto con la soave melodia dello strumento a fiato. La chitarre ruggiscono e impazziscono qua e là, mentre basso e batteria eseguono senza infamia e senza lode il loro mestiere.
C’è da dire che, come spesso accade anche a molti altri gruppi, le canzoni a lungo termine tendono a diventare noiosette e ripetitive. Se con il brano apertura ci esaltiamo immediatamente, il lento incedere dell’album ci riporta pian piano coi piedi per terra. La struttura musicale è molto semplicistica ed immediata, il flauto/mandolino/fisarmonica ci cattura immediatamente col suo motivetto danzereccio e festaiolo, la ritmica di chitarra lo segue come un pulcino segue mamma oca e la batteria ci mette del suo per rendere più accattivante il brano. Le tematiche proposte sono alla fin fine sempre le stesse: alcolismo vario, feste, eroi, guerre, mostri e un pizzico di storia danese. Di sicuro il testo in lingua madre è sì più genuino e caratterizzante, ma di sicuro non aiuta l’ascoltatore ad immergersi nella musica.
Come detto in precedenza, l’ascolto dell’intero album di fila risulta non appagante e tende a deconcentrare l’ascoltatore. Se ne consiglia l’ascolto a piccole dosi e ad intervalli non regolari in modo da poterne apprezzare appieno il fattore folkloristico.