The Vision Bleak
Set Sail To Mystery

2010, Prophecy Productions
Gothic

Recensione di Fabio Petrella - Pubblicata in data: 02/04/10

Ahi ahi, The Vision Bleak. Delusione e disincanto cavalcano feroci nelle oscure foreste dell’incubo. La nave fantasma capitanata dell’ex Empyrium Ulf Theodor Schwadorf e Allen B. Konstanz leva nuovamente l’ancora per scivolare spettrale nella notte e salpare per il mistero. Dalla banchina di un porto abbandonato risuona folle la risata dell’ignoto.
 
A due anni di distanza dal precedente “The Wolves Go Hunt Their Prey” i tedeschi tornano a digrignare i denti con “Set Sail To Mystery”, disco che conferma il ciclo calante della band. I The Vision Bleak, sin da principio, hanno sempre amalgamato sonorità hard & heavy ad atmosfere surreali, dai tratti gotici. Le liriche spaziano dalla più recente cinematografia di John Carpenter e George Romero fino alla leggendaria scuola horror della Hammer e Universal, con un occhio di riguardo per la bibliografia di Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft, indiscussi maestri dell’orrore. Il risultato è un gothic metal di grande fascino e suggestione, grezzo e teatrale. Il sinistro debutto “The Deathship Has a New Captain”, del 2004, è una rivelazione. Così come il suo successore “Carpathia”, dai toni più solenni e orchestrali. I primi segni di cedimento arrivano nel 2007 con il fatidico terzo disco, “The Wolves Go Hunt Their Prey”, che non riesce nell’impresa di convincere appieno, colpa anche di un discreto calo d’ispirazione. Tre dischi in quattro anni possono giustificare, in gran parte, la band.
 
Secondo i miei futili calcoli “Set Sail To Mystery”, vuoi per il titolo insigne, vuoi per l’attesa di quasi tre anni, doveva rappresentare l’album di espiazione, la fatica di redenzione per i bavaresi. Ebbene, non è così. A ben guardare può essere considerato come il peggior disco della carriera dei tedeschi; quella che ritenevo una personale convinzione si è tramutata in dura realtà. Il nuovo lavoro suona stanco, spento e poco ispirato, privo di quell’aura maligna ricca di segreto e inquietudine, necessaria per il concetto di suggestione. Sul teatro degli orrori, come a spettacolo terminato, pare essere calato il sipario. Eppure dall’intro non si direbbe. “A Curse Of The Grandest Kind” è un brano minaccioso, epico e teatrale. Una voce narrante, cupa e profonda, introduce l’ascoltatore in un mondo arcano, dimora di entità astrali e demoniache, fitto di misteri celati e maledizioni senza tempo, in pieno stile lovecraftiano. La seconda “Descent Into Maelstrom”, bene o male, è il classico brano alla The Vision Bleak. Un flashback sagace e plateale sospinge il vascello fantasma su putride acque prima della deriva.
 
A seguire, come nelle più degne pellicole tragiche, il dramma compositivo della band. Dietro “Set Sail To Mystery” si cela un abisso cosmico, un buco nero, un gorgo assassino che inghiottisce la parte centrale del disco. Tracce noiose, melodie già sentite e atmosfere meno evocative e brillanti affondano il bastimento dei morti viventi che raggiunge il culmine di asfissia in “Mother Nothingness (The Triumph Of Ubbo Sathla)”. L’estratto è un prolisso tributo alla figura fantastica, tratta dai Miti di Cthulhu, di Ubbo-Sathla, gigantesca massa protoplasmatica progenitrice di tutti gli esseri viventi della Terra, creata dalla fertile penna di Clark Ashton Smith, autore californiano e amico di Lovecraft. Sul finire del tunnel, secondo consuetudine, s’intravede la luce: “The Foul Within” e la conclusiva “He Who Paints The Black Of Night” risollevano le sorti del disco e, con una certa intraprendenza, impediscono alla nave spettrale di colare a picco.
 
Con un inaspettato colpo di scena finale, di quelli che si vedono solo nei migliori cinema, i The Vision Bleak salvano la propria regata infestata e attraccano sulle coste di una sufficienza generosa. Il bottino per ora è al sicuro, ma il vascello della morte, dopo sei anni di spietate scorribande, ha bisogno di un urgente restauro.




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