Bathory
Hammerheart

1990, Black Mark Records
Viking Metal

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 13/10/14

Se i vichinghi avessero conosciuto il linguaggio del rock e fossero stati dotati di tutto l’equipaggiamento necessario, il risultato sarebbe stato senz’altro un disco come “Hammerheart”. A quasi un quarto di secolo dalla sua uscita, l'opera quinta dei Bathory continua a emanare un fascino che non ha termini di paragone se non quello di una vera esperienza mistica. Se il precedente “Blood Fire Death” (1988) costituiva una prima repentina incursione nei territori della mitologia norrena, il seguito è l’inizio di un viaggio malinconico e profondo nella grandiosa epopea della civiltà vichinga, un’elegia lontana dai toni parossistici odierni e dalle costosissime produzioni messe in piedi dai numerosi epigoni. Oltre a essere un personaggio ingannevolmente misterioso, Quorthon è l’archetipo dell’artista di concezione romantica, un animo tormentato incapace (o forse non desideroso) di affiancarsi a una line up stabile, così come di confondersi con i linguaggi e i meccanismi del music business, ed è curioso che a tracciare la strada per il metal degli anni a venire sia stato un artista proveniente da tutt’altra parte, ispirato a Motorhead e Kiss, Beatles e Sex Pistols, figlio della cultura underground di generi come l’Oi! e il Crust.

La genialità di Quorthon si manifesta in tutto il suo splendore nel minimalismo di un linguaggio musicale sufficiente per disegnare un mondo intero, una chitarra di derivazione punk, qualche base di tastiera, un cantato sgraziato e lancinante, pochi rumori di ambiente e una produzione volutamente di basso livello. La risacca di “Shores In Flames”, lo scenario bucolico di “Father To Son”, la maestosa preghiera di “Song To Hall Up High” costituiscono la porta di accesso a un mondo antico e misterioso fatto di tracce lunghe e solenni, chitarre che oscillano come le onde del profondo mare del Nord, per un affresco oscuro e ancestrale ancora oggi ineguagliato, un linguaggio in cui la quotidianità, la spiritualità e i valori di un’intera società vengono raccontati secondo la prospettiva dei suoi stessi uomini. Suggestioni che prenderanno la forma del Viking Metal, definizione all’epoca non ancora coniata ma che assumerà una connotazione ben definita oltre a numerosi tentativi di imitazione. “Hammerheart” sarà l’innesco per un’intera generazione di bands, Watain, Moonsorrow, Primordial e in generale tutto il black death scandinavo, così come “One Rode To Asa Bay” rimane ancora oggi il capolavoro da eguagliare in termini di epicità assoluta, al pari dell’omonimo videoclip, unica testimonianza visiva del progetto di Quorthon.

Molti aggettivi sono stati usati per descrivere l’aria che si respira in “Hammerheart”, e tutti perfettamente calzanti ma aldilà delle divagazioni stilistiche nell’arco di tutta la sua carriera, alcune di indiscutibile portata storica, a rendere unico il compianto artista svedese è la sua assoluta incorruttibilità, come se davvero fosse venuto da un’altra epoca per raccontarci come stessero le cose lassù, nel profondo Nord, sulle spiagge della Baia di Asa, tanti e tanti anni fa. Oggi che Quorthon non è più fra noi, e a raccogliere la sua eredità non ci saranno code di giornalisti, tributi o speciali TV, la memoria storica di quella fantastica esperienza dell'underground chiamata Bathory è rappresentata dai numerosi fans che ancora oggi ne celebrano gli indiscussi meriti artistici. “Hammerheart” è un’opera intrisa di romanticismo decadente, lo stesso che sprigiona la tela di Frank Dicksee presa in prestito per la copertina, un affresco nostalgico di un’era lontana riprodotto come nessuno mai è riuscito a fare, nè prima nè dopo.




01. Shores In Flames
02. Valhalla
03. Baptised In Fire And Ice
04. Father To Son
05. Song To Hall Up High
06. Home Of Once Brave
07. One Rode To Asa Bay

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