Deep Purple
InFinite

2017, Ear Music
Hard Rock

Chi ha pronunciato la parola "fine"? Non certo Ian Gillan...
Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 30/03/17

Tutto ha un inizio e tutto ha una fine. Quante volte ci è stato ripetuto questo mantra, per farcene una ragione. Fra i due punti estremi, però, c’è lo spazio di una vita, più una miriade di situazioni e sfaccettature. Le premesse della nuova release targata Deep Purple non erano delle migliori perché, inutile girarci intorno, fra titoli autocelebrativi, lunghi addii, doppi sensi e oscuri presagi, l’atmosfera che si era creata sembrava tanto quella dei titoli di coda, che fosse prossimo quindi il momento dei saluti finali. Fosse davvero così, non ci sarebbe neppure da stupirsi. Dopotutto, cosa altro si può chiedere a una band che ha contribuito a fare la storia e che ha cercato, in qualche modo, di sopravvivere al suo stesso mito affidandosi a un pizzico di leggerezza e all’amore per la musica?

Funesti presagi confermati dall’atmosfera cimiteriale dell’iniziale “Time For Bedlam”, che riparte proprio lì dove si era conclusa “Vincent Price” sul disco precedente; introdotto come una veglia funebre da un inedito Ian Gillan, il pezzo è in assoluto una delle cose più interessanti prodotte di recente dai Deep Purple, in cui le atmosfere di “Pictures Of Home” fanno da cornice alle incalzanti trame di Don Airey e Steve Morse. “InFinite” è stato presentato, forse con una punta di pretenziosità, come il disco prog dei Deep Purple, ma per onestà intellettuale andrebbe descritto come un disco con una gran quantità di idee assemblate con una buona dose di imprevedibilità. Il recupero dello spirito Seventies iniziato con il precedente “Now What?!” giunge qui a pieno compimento: se là era stato Don Airey a fare la parte del leone, qui è l’intera band a mostrare una autentica comunione di intenti. I Deep Purple ribaltano a proprio favore quelli che potrebbero sembrare i difetti tipici di una band in lotta contro il tempo che passa. Un sound più ragionato, persino coeso, in cui nessuno strumento sembra fare a gara per eccellere sugli altri; persino Gillan, le cui performance sono diventate col tempo sempre più controverse, mostra come si possano raggiungere formidabili interpretazioni anche quando il registro vocale non è più quello di un tempo. Un contributo decisivo al colpaccio giunge anche da Bob Ezrin che, in sede di produzione, si conferma il migliore sulla piazza per queste operazioni di recupero, come insegnano i recenti trascorsi con Pink Floyd e Alice Cooper. L’approccio della band è dunque familiare e questo farà senz’altro la felicità dei fans, ma gli sviluppi del disco sfiorano talvolta l’imprevedibile, come nella litanìa West Coast di “The Surprising”, o nell’incalzante solarità di “Johnny’s Band”. Questa volta non serve neppure il classico brano di punta, “InFinite” non vuole essere il pretesto nè per riscrivere la storia, nè per un voto alla carriera; rappresenta piuttosto un sodalizio destinato a rinnovarsi fino alla fine dei giorni.
 
La scanzonata rilettura di “Roadhouse Blues” è un tributo alla leggenda del rock'n'roll o, se preferite, un congedo su cui aleggia beffardo il ghigno ironico di Ian Gillan, l’uomo che ha reinterpretato gli schemi del profondo porpora con realismo e leggerezza, consentendo al mito di arrivare fino ai giorni nostri. Fosse anche un ultimo saluto, le premesse per farlo durare all’infinito ci sono tutte.




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